Sono passati da poco due importantissimi momenti per la leggenda del tennis aussie Lleyton Hewitt: il suo 40esimo compleanno, scoccato giovedì scorso, e i suoi amatissimi Australian Open, lo Slam di casa che nonostante oltre 20 tentativi (e una finale, persa nel 2005 contro il russo Safin) mai è riuscito a conquistare (e che invece il fresco campione Novak Djokovic ha vinto la bellezza di nove volte). Un fatto piuttosto strano, visto che Hewitt nel 2001 è diventato il più giovane numero 1 Atp di sempre (20 anni e 8 mesi, record tutt’oggi imbattuto), senza dubbio uno dei tennisti più iconici del circuito mondiale. Dopotutto essere profeti in patria è difficile a qualsiasi latitudine, terra dei canguri compresa.
«Ogni punto come la Seconda Guerra Mondiale»
Terra che ad Adelaide, metropoli del profondo Sud, gli ha dato i natali il 24 febbraio 1981. Già, Adelaide, la stessa città dalla quale nel gennaio 1998, da 16enne numero 550 del mondo, partì la sua scalata al tennis mondiale, con la sensazionale vittoria del suo primo titolo Atp, giustiziando in semifinale il mitico Agassi. Storia straordinaria quella di Hewitt, il fighter biondo col cappellino rovesciato, celebre per i suoi sfrontati c’mon e per il suo tennis in cui «giocava ogni punto come se fosse la Seconda Guerra Mondiale» (copyright di un’altra leggenda australiana, Roy Emerson). Un campione che ha fatto da trait d’union tra la generazione degli Agassi e dei Sampras e quella degli imbattibili Fab 3 (Federer, Djokovic e Nadal), che imperversa ancora oggi.
Un bambino prodigio plurititolato: Wimbledon, Us Open, Coppa Davis… E non è ancora finita
Lleyton è stato un fuoriclasse in termini di precocità, capace già a 22 anni di collezionare trofei che quasi tutti hanno visto col binocolo dopo un’intera carriera (30 titoli Atp tra cui Us Open 2001, Wimbledon 2002, Masters Cup 2001 e 2002 e Coppa Davis 1999 e 2003, oltre ad 80 settimane da numero 1), mantenendosi però inossidabile anche nella ‘vecchiaia’. Hewitt infatti detiene quello che sembra essere il primato mondiale ad alti livelli di giocatore ‘semi-ritirato’, un po’ in attività e un po’ no. Dopo il ritiro ufficiale del 2016 (ko contro Ferrer nel secondo turno dei suoi Australian Open), corollario di un decennio flagellato da infortuni (quel gioco così dispendioso non poteva che presentargli il conto), ‘Rusty’ non ha saputo resistere al fascino del ritorno già nel 2018, quando cominciò la sua seconda vita tennistica solo come doppista. Una nuova carriera comprensibilmente avara di trofei e portata avanti sia per gioco – affinché i suoi tre figli Ava, Cruz e Rebecca (avuti dalla moglie Bec Cartwright, per la quale lasciò l’ex numero 1 Wta Kim Clijsters) potessero ammirarne le gesta sul campo – che per ‘ascetismo’, in modo che qualche giovane connazionale potesse crescere giocandogli a fianco. Questa seconda vita è proseguita (e dove sennò) fino agli Australian Open 2020, sempre e solo in doppio. E il secondo ritiro ufficiale, per ora, non sembra essere ancora giunto, tanto che virtualmente Hewitt risulta essere ancora in attività.
Capitano (non) giocatore
Ma il suo futuro (e il suo presente, come il suo passato) è quello di allenatore e mentore, capitano della nazionale australiana di Coppa Davis. Ruolo che Hewitt ricopre dal 2015, quando ancora non si era ufficialmente ritirato, e grazie al quale continuerà a rappresentare l’anima del tennis aussie, nel tentativo di far compiere il definitivo salto di qualità a talenti ‘dannati’ come Kyrgios o ancora acerbi come De Minaur. Del resto la Davis, nella sua versione originale, quella con le interminabili partite in cinque set e il calore asfissiante del pubblico, ha esaltato alla perfezione il suo carattere di lottatore sopraffino e mai domo, pur senza essere baciato dalla grazia di dio di Re Roger, dalla forza bruta di Rafa o dall’elasticità di Djoker.
Una rivoluzione orchestrata da fondo campo
Hewitt fu capace di sfruttare il breve interregno dei primi anni Duemila senza ‘imbattibili’ e di far propri Slam e allori vari, grazie a doti fino ad allora poco diffuse e ritenute non esattamente nobilissime: straordinario atletismo, gioco poderoso da fondo campo, pallonetti e grandi recuperi. Su tutti Wimbledon, il torneo più prestigioso al mondo, conquistato 19 anni fa dominando in finale l’argentino Nalbandian, tenendosi alla larga da quel serve & volley che fino ad allora nel tempio dell’All England Club e nell’erba era una religione. Hewitt, a suo modo, contribuì ad aprire la strada al tennis della potenza e della fisiscità (benché lui stesso non fosse un marcantonio con un servizio al fulmicotone), oggi percorsa da quasi tutti i big e spesso contestata dai tifosi, nel nome del gioco e dei colpi divini di quel Federer che nel corso degli anni Duemila gli ha impedito di aggiungere altri record. Ma, contro il coetaneo svizzero, ‘Rusty’ ha saputo togliersi una soddisfazione eterna: la memorabile rimonta da due set a zero nella semifinale Davis 2003 davanti al suo pubblico della Rod Laver Arena, che regalò all’Australia la finale, viatico per l’ultima insalatiera. Trofeo che Hewitt da qualche anno tenta di riconquistare da capitano, simbolo tennistico di un’Australia che nel corso degli anni ha imparato ad amarlo, perdonandogli qualche ‘spigolosità’ e ruvidezza giovanile. Sì, in realtà Lleyton profeta in patria lo è stato e lo è eccome.