«Un uomo che ha visto il 1968 e ha dedicato tutta la vita alla ricerca della libertà per sé e per gli altri come prende l’attuale situazione?»
La prima domanda se la pone da solo, Enrico Petazzoni, ex professore di economia in Australia e Gran Bretagna e storica figura del ’68 bolognese, protagonista della nostra intervista. Gli anni Sessanta, i movimenti libertari e la controinformazione di cui fu protagonista sembrano lontanissimi oggi, nell’era del Covid-19. Perché non provare dunque a confrontare due periodi così distanti?
«Il ’68 – racconta – inizia in Italia nel 1966 al Liceo Parini di Milano (in evidenza una foto di Uliano Lucas di quegli anni nel capoluogo lombardo) con l’articolo pubblicato sul periodico studentesco La Zanzara: ‘La posizione della donna nella società italiana’. Con questo articolo sulla sessualità femminile si inizia a manifestare quell’amore per la libertà che avrebbe caratterizzato gli anni successivi. All’epoca c’erano delle regole che compromettevano la libertà, causate da una mentalità antiquata».
Anche oggi abbiamo perso la libertà, ma per ragioni ben diverse…
«Sì, in questo caso c’è un agente patogeno e un problema di salute pubblica. Anche in questo periodo storico però si sta producendo un forte disagio psicologico, soprattutto in alcune fasce di età, determinato da regole che impongono l’isolamento. Credo che si dovrebbe fare di più, perché si è scelta, in buona fede, la strada più semplice, imporre regole che limitino la libertà, ma si poteva affiancare a queste regole un’azione positiva».
Che tipo di azione?
«Si poteva fare uno sforzo maggiore, affidandosi alla scienza e alla tecnologia che abbiamo, per mettere in sicurezza i luoghi e le occasioni per esprimere il proprio bisogno di socialità. Creare così condizioni ambientali (attraverso il controllo di temperatura, umidità, ventilazione, irraggiamento) favorevoli a garantire la salute. Per esempio si poteva fare di più per rendere sicure le scuole o le RSA». N.d.r. approfondiremo l’argomento anche con un esperto di epidemiologia.
Proprio sulle scuole c’è stato un grande dibattito…
«Noto con piacere che i ragazzi hanno manifestato la loro voglia di tornare tra i banchi scolastici, con qualche protesta. Sarebbe meglio, per la stessa salute pubblica, provare a garantire momenti di socialità in sicurezza. Regole così stringenti poi finiscono per spingere la gente ad eluderle, a incontrarsi nelle proprie abitazioni private e a farlo senza un minimo di precauzioni. E lì poi si annidano i contagi. Sarebbe meglio invece mettere in sicurezza luoghi dove la gente possa vedersi, ma rispettando le dovute precauzioni».
Ma il mondo in cui vivevamo fino al 2020 era davvero libero?
«Penso di no, se ci rifacciamo al motto di Giorgio Gaber: ‘Libertà è partecipazione’. Viviamo in un mondo in cui a partire dagli anni Ottanta ha vinto il neoliberismo. La dimensione collettiva e le strutture sociali attraverso le quali si rendeva possibile la partecipazione sono state distrutte».
Non crede che proprio questa crisi possa essere un’occasione per cambiare le cose?
«A volte dopo le crisi si fanno le scelte giuste, in altri casi no, le cose anzi peggiorano, come dopo la Prima guerra mondiale. All’inizio di questa pandemia in Italia si respirava un clima di solidarietà collettiva. Adesso vedo nell’aria di nuovo egoismi e individualismi. Si sono esaurite le risorse che ci hano permesso di affrontare i primi mesi».
Ha visto le proteste di Capitol Hill che hanno portato i supporter di Trump a fare irruzione nel palazzo del Congresso americano? Sembra che oggi i movimenti di protesta, a differenza degli anni Sessanta, siano più di destra che di sinistra, e invece che chiedere maggiore libertà, si orientino verso il sostegno a figure autoritarie…
«In America nel 2020 però c’è stato anche il movimento ‘Black lives matter’, un movimento progressista contro le violenze nei confronti degli afroamericani. Mi sembra poi che le cose lì stiano volgendo per il meglio dopo le ultime elezioni. In Italia invece il voto premierebbe tutt’oggi forze sovraniste e di destra».
Perché secondo lei?
«Negli ultimi anni il Pd è stata la forza che più ha governato, i risultati però ci consegnano un paese in crisi, quindi la gente per manifestare la propria ribellione vota a destra. Un modo per invertire la rotta sarebbe utilizzare bene i 209 miliardi che arrivano dall’Europa».
Lei è stato protagonista di uno dei fenomeni più importanti per la storia dell’informazione italiana…
«La controinformazione. Un’esperienza che coinvolgeva giornalisti veri, oltre che volenterosi come noi, che si definivano impropriamente “giornalisti democratici”, membri di gruppi politici. C’era tra i professionisti e i volontari spesso un vero e proprio scambio. Le informazioni raccolte circolavano attraverso articoli su giornali militanti o su giornali indipendenti o attraverso libri-inchiesta».
Quando nasce la controinformazione?
«Quando esplode la bomba a piazza Fontana il 12 dicembre 1969 ci si pone l’interrogativo: chi? Perché? Non tutti risponderanno in modo uguale. Lotta Continua si rispose così: stanno preparando un golpe. Quindi decide di dotarsi di una struttura di controinformazione, dislocata in tanti paesi d’Italia. Scoprimmo per esempio che c’erano a volte concentrazioni in ville e posti isolati di campagna e montagna di auto di lusso. Erano auto di ufficiali dei carabinieri, magistrati, ma anche membri di Ordine nuovo. I luoghi delle riunioni erano contrassegnati come Cs, cioè Centri sociologici. Si trattava di incontri massonici».
Lei ebbe anche una disavventura giudiziaria…
«Nel ‘75. I magistrati scrissero ‘Spionaggio a favore di una non meglio identificata superpotenza straniera’, un unicum in Italia – ride Petazzoni -. Avevo avuto dei documenti riservati su come si stavano organizzando le caserme in Emilia-Romagna. Li scoprirono durante una perquisizione a casa mia. Finì in carcere. Fui assolto in primo grado al processo e condannato in secondo grado a meno del minimo. Ero in Australia intanto. Poi ho ricevuto anche il perdono giudiziario e la riabilitazione completa».
Oggi c’è ancora la controinformazione?
«Nella seconda metà degli anni Settanta finisce pian piano un’era caratterizzata da gruppi politici che si dedicavano con le loro strutture alla controinformazione. Questa attività è continuata nel lavoro di alcuni singoli, soprattutto giornalisti, ma senza l’organizzazione di un lavoro corale».
Oggi è più difficile o più facile fare informazione?
«Ritengo sia più difficile. Quando è nata la rete, tutti ne magnificavano l’aspetto democratico. Pia illusione. Oggi il vostro compito è fronteggiare questa grande diffusione di fake news e haters che possono raggiungere tutti senza che ci sia un filtro. Non vi invidio, dovrete cercare di far emergere la verità tra le mille voci che si elevano».
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