Leonardo Sciascia: i 100 anni e la premonizione sull’Italia
Cento anni fa, l’8 gennaio 1921, nasceva Leonardo Sciascia. Figlio di Racalmuto, in provincia di Agrigento, lo scrittore siciliano rappresenta uno degli ultimi intellettuali italiani del Novecento. Una personalità che per la seconda metà del secolo ha denunciato le ambiguità del potere politico e della Chiesa e che, per primo, ha reso la mafia un argomento letterario. Un uomo in grado di colpire il fascismo con l’arma dell’ironia e di polemizzare indifferentemente con democristiani, socialisti e comunisti, ma anche con eroi dell’antimafia come il giudice Paolo Borsellino. Ma è soprattutto un autore che ha lasciato al nostro Paese una infelice premonizione, quella secondo cui tutta «Italia va diventando Sicilia».
Gli esordi
La sua isola, nel cuore del Mediterraneo, è parte di quel meridione che si fa Italia, di quel mondo arabo che si mescola con quello occidentale – ben prima dell’arrivo dei migranti dal nord Africa – prendendone pregi e difetti. Ma è anche il luogo in cui inizia la sua narrazione, da fine intellettuale di provincia e maestro elementare, prima di arrivare a colpire i palazzi del potere a Roma. Proprio grazie al suo provincialismo e alla sua vicinanza ai temi di un Sud che subiva il potere dall’alto, fosse fascista o democristiano poco importava, Sciascia viene notato da Pier Paolo Pasolini per Le favole della dittatura e Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio letterario dell’agrigentino. Se Moravia e Calvino entrano di diritto fra i maggiori intellettuali italiani di respiro internazionale, Sciascia e Pasolini sono invece legati da quel provincialismo teso a mettere a nudo tutti i difetti del nostro Paese. Già da questa prima opera si intravede l’interesse per la giustizia sociale attraverso la denuncia delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori delle miniere di sale costretti dalle leggi del mercato a una paga misera e al rischio di malattie e infortuni anche mortali. Siamo nella seconda metà degli anni Cinquanta e, nel raccontare, Sciascia non utilizza sentimentalismi, strizzando l’occhio al Neorealismo, né issa «la bandiera rossa alla finestra», senza la necessità di collocare la sua opera all’interno della letteratura impegnata, tipica della sinistra italiana. O perlomeno, non solo. Lo fa con una nettezza cronachistica utile ad accendere i riflettori sulla condizione di arretratezza del meridione post-bellico.
I gialli di mafia
Negli anni ’60 lo scrittore siciliano irrompe nel panorama letterario italiano e si fa conoscere per i suoi romanzi gialli in cui la mafia diventa la protagonista indiscussa. Non esiste studente italiano che non abbia letto alle medie o alle superiori A ciascuno il suo o, soprattutto, Il giorno della civetta. Grazie al suo romanzo più famoso lo scrittore diventa riconoscibile da chiunque. E lo fa portando in scena, per la prima volta, la mafia che diventa letteratura. Pone, così, un problema non più solo cronachistico nel dibattito nazionale ma anche letterario e sociale. Mai prima di allora si era parlato esplicitamente di mafia e subito dopo arrivano anche gli sceneggiati per il cinema e la tv.
Le trame scarne, facilmente adattabili alla scrittura del noir, diventano un racconto collettivo della società siciliana nel passaggio dalla mafia rurale a quella affaristica. I protagonisti, che risultano sempre degli sconfitti, sono uomini dello Stato come il capitano dei carabinieri Bellodi o il professore Laurana, che incarnano la figura di personaggi positivi isolati dalla società circostante che trama alle loro spalle.
La palma va a nord
Gli arabi hanno dominato per oltre due secoli sulla regione portando cibi e tradizioni del mondo orientale, ma anche innovazioni urbanistiche, culturali e toponomastiche. Nel saggio Sicilia e sicilitudine Sciascia parla di come il suo stesso cognome abbia matrice araba, Xaxa, ossia “velo del capo” mentre il suo paese, Racalmuto, dovrebbe derivare da Rahal maut, cioè “villaggio morto”, senza contare di come la stessa parola mafia abbia derivazioni dal toscano, dal francese e dallo stesso arabo. Nello specifico maehfil, col significato di adunanza o da mohafat, amico riconoscente, come riferisce il personaggio dell’abate Vella, uno dei protagonisti de Il consiglio d’Egitto, romanzo dello scrittore racalmutese del 1963. La stessa metafora sulla linea della palma è riconducibile al mondo arabo, vista la provenienza della pianta dal nord Africa e dal Medioriente. Sciascia, attraverso la voce del capitano Bellodi ne Il giorno della civetta, fa la sua infausta premonizione con oltre mezzo secolo di anticipo, spiegando: «gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…». Siamo solo nel 1960 eppure lo scrittore intuisce quanto la mafia possa diventare un fenomeno nazionale e non più solo regionale. Il caffè ristretto, tipico del meridione sale sempre più a nord, in cui solitamente il caffè viene bevuto ‘alto’ o lungo. E con esso sale e si diffonde anche la mafia, oltre alle abitudini quotidiane dei cittadini.
La Chiesa e il potere
Negli anni Settanta, Sciascia sviluppa maggiormente la sua critica al potere politico e religioso. E lo fa attraverso uno spirito di ricerca razionale e di giustizialismo nei confronti di quelli che hanno sovvertito il regolare ordine delle cose. A prova di ciò, i romanzi di questo periodo, da Il Contesto a Todo modo, da La scomparsa di Majorana a L’affaire Moro, sono intrecciati a quanto era accaduto o stava accadendo in quegli anni. Lo scrittore viveva la sua personale disillusione politica nel periodo in cui terrorismo rosso e nero sconvolgevano l’Italia e la mafia si mescolava tra le stragi fasciste. Dopo essere stato consigliere comunale del suo paese nelle fila del Pci, Sciascia si stava spostando su posizioni vicine al partito Radicale. I comunisti, nel frattempo, si avvicinavano ad andare al governo grazie all’accordo tra il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, e quello della Dc, Aldo Moro. Nel 1974, uno degli anni cruciali della storia d’Italia del Novecento, esce Todo modo che rappresenta la summa di tutte le critiche al potere ecclesiastico, troppo spesso legato a doppio filo con quello politico e mafioso. Come rivela alla giornalista Marcelle Padovani, Sciascia aveva preso spunto da un episodio che gli era capitato nell’eremo di Zafferana Etnea, a pochi chilometri da Catania, in cui è ambientato il noir e in cui aveva potuto assistere «a una serie di esercizi spirituali ai quali si dedicavano ex allievi dei salesiani. Singolari allievi, devo dire: quasi tutti notabili della Democrazia cristiana, e li vedevo ogni sera intenti a recitare il rosario passeggiando avanti e indietro sul piazzale antistante l’albergo». Don Gaetano, un sacerdote più simile a un demone che a un santo, è il prodotto finale delle critiche già riservate agli uomini di Chiesa in tutti i suoi precedenti romanzi e che in Todo modo raggiungono l’apice. A esse si sommano le stilettate verso la Dc e verso quel covo di serpi che, dopo aver avvinghiato l’Italia con trent’anni di potere, si preparava a ferire a morte anche il proprio presidente. Moro, che nel libro non viene mai citato, da lì a breve sarebbe stato rapito dalle Brigate rosse e pugnalato, metaforicamente, dai suoi stessi amici di partito.
Un romanzo che lo stesso Pasolini definì, all’epoca, «una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso». L’opera nel 1976 diventa un film per la regia di Elio Petri, che si ispira al romanzo di Sciascia e ne sviluppa il finale, grazie a un cast d’eccezione: Gian Maria Volonté, Michel Piccoli, Mariangela Melato e Marcello Mastroianni che veste i panni del diabolico e tentatore don Gaetano.
In quegli stessi anni uguale sorte era toccata anche a Il contesto trasposto sui grandi schermi da Francesco Rosi col titolo di Cadaveri eccellenti. Petri e Volonté avevano già lavorato insieme su un testo dello scrittore siciliano per A ciascuno il suo, uscito nel 1967, mentre Damiano Damiani aveva diretto Il giorno della civetta, del 1968, con Franco Nero e Claudia Cardinale. Più recente, del 2002, è l’uscita de Il consiglio d’Egitto diretto Emidio Greco con Silvio Orlando e Renato Carpentieri fra il cast. Nel 1979 Sciascia diventa deputato con i radicali entrando a far parte, fino al 1983, delle commissioni parlamentari sulla strage di via Fani e sul fenomeno della mafia. Nel frattempo continua la sua prolifica produzione letteraria, concentrandosi maggiormente sulla scrittura di saggi e di testi teatrali.
L’antimafia
Schivo e scontroso, le sue immancabili Chesterfield tra indice e medio, profondo amante dell’illuminismo francese, Sciascia non ha mai smesso di essere pungente e anticonformista. Anche con quelli che sarebbero poi diventati degli eroi nazionali. Ne è un esempio la polemica sul concorso vinto da Paolo Borsellino con cui ne scaturì una discussione a distanza all’inizio del 1987.
Lo scrittore metteva in guardia, dalle colonne del Corriere della sera, su quelli che definiva «i rischi dell’antimafia». E lo fece tacciando i giudici del pool che fecero partire il maxi-processo alla mafia corleonese di protagonismo e opportunismo per poter fare carriera all’interno della magistratura. O meglio, si augurava che non ci fosse quel rischio, tralasciando quanti altri pericoli corressero i magistrati palermitani nel loro lavoro. Borsellino, infatti, divenne procuratore di Marsala non per anzianità di servizio, come avveniva all’epoca, ma per meriti legati alla lotta sul campo che gli permisero di superare altri candidati. I due poi si chiarirono, come testimoniato anche da una foto sorridenti a tavola un anno dopo la polemica, nel 1988, poco prima che Sciascia morisse il 20 novembre del 1989. Ma Borsellino non accettò mai la critica dello scrittore racalmutese. Anche perché Sciascia perseguì la sua personale battaglia sul garantismo giudiziario, basando, ancora una volta, il proprio credo sull’uso della ragione, sulle idee di Voltaire e di Montesquieu, sul trionfo del diritto e della giustizia che solo uno stato democratico assicurano, in contrapposizione alle manette e alla repressione autoritaria osannate dai «fanatici dell’antimafia».