Livorno Popolare, un altro calcio è possibile?
Rompere lo schema che vede i tifosi come soggetti passivi del calcio, rovesciando le gerarchie e diventando proprietari della propria squadra. È quello che stanno provando a fare i sostenitori del Livorno, che hanno lanciato l’iniziativa di azionariato popolare Livorno Popolare con l’obiettivo di acquisire la maggioranza assoluta del club labronico.
L’idea
«Dé, che si fa? Ci si piglia il Livorno!». Così devono essersi detti gli otto pionieri che hanno avuto l’idea iniziale per scuotere la piazza e risollevare le sorti del club amaranto, miseramente ancorato all’ultimo posto in Serie C. «Il progetto è nato guardandoci intorno – spiega Alessandro Colombini, responsabile dei rapporti con la stampa di Livorno Popolare -. Una situazione così deprimente, a livello di risultati sul campo, non si vedeva dalla fine degli anni ’90. La nostra è una piazza visceralmente umorale: o si esalta o si deprime. Ma non è mai apatica. Invece questa volta vedevamo tanta apatia e ci chiedevamo perché. In realtà appena siamo partiti abbiamo scoperto che bastava dare un input. I livornesi ci stanno seguendo in massa».
Sogni concreti
Detto, fatto: si sono rimboccati le maniche e hanno creato un gruppo di studio, da cui sono stati partoriti gruppi di lavoro. Dall’ambito finanziario a quello legale, da quello sportivo a quello della comunicazione, fino ai progetti sociali. Con l’intenzione dichiarata di entrare nel club amaranto da protagonisti, come soci di maggioranza. La città? Ha risposto alla grande. Le adesioni sono state più di duemila in dieci giorni. Circa tremila dopo tre settimane. Un boom che ha sorpreso gli stessi artefici del progetto, che oggi non vogliono precludersi nulla. Tanto sognare non è proibito.
I gruppi di lavoro
A dare corpo al progetto di Livorno Popolare, oggi, sono una sessantina di persone che, dopo vari incontri con istituzioni, club labronici e associazioni cittadine, stanno costruendo un business plan in grado di reggere a livello finanziario e sportivo. Sognare sì, ma con precisione e impostazione professionale fino ai minimi dettagli, per non lasciare che le buone intenzioni sfumino come utopie irrealizzabili. Anche perché per ora le adesioni sono non vincolanti, semplici alzate di mano che però danno l’idea della voglia di partecipazione che si respira in città. Tanto è vero che a sposare l’iniziativa sono stati anche ex calciatori del Livorno come Mazzoni, Luci, Borghese e Doga. E come l’ex portiere Marco Amelia, ora allenatore della squadra amaranto.
Che Guevara, bandane e Lucarelli
Tutto è nato dai guai finanziari del Livorno, che ultimamente non naviga certo nell’oro. Lontani i tempi di Protti e Lucarelli, bomber livornese che scelse il 99 per omaggiare l’anno di fondazione delle Bal (Brigate Autonome Livornesi), storico gruppo ultras anch’esso relegato nel cassetto dei ricordi. E chi non ricorda i 10mila livornesi, freschi di promozione, in trasferta a San Siro con le bandane in testa per sfottere Silvio Berlusconi? Era il 2004, prima di campionato contro il Milan. Tra falci e martello, Che Guevara e bandiere rosse, Livorno è stata l’eccezione del calcio. Che, grazie ad Aldo Spinelli, presidente del club dal 1999 (ancora), raggiunse la Serie A da outsider, fino alla Coppa Uefa nella stagione 2006-2007.
Dalla Uefa al rischio D
Un patron croce e delizia, però, come tanti nel mondo del pallone che rotola. Da qualche anno, Spinelli ha manifestato l’intenzione di disimpegnarsi, senza riuscire a trovare un acquirente. Uno, in realtà, l’aveva trovato: Majid Yousif, imprenditore olandese di origini libanesi, proprietario dell’attività di car sharing Share ‘n go. Peccato che sia stato arrestato in Olanda lo scorso maggio, pochi giorni prima di rilevare il Livorno. Una situazione in caduta libera, con ovvie ripercussioni sul campo: dal ritorno in C alla retrocessione in D sempre più vicina nella stagione in corso. Tra fideiussioni fantasma, stipendi non pagati e punti di penalizzazione. Il Livorno, che nel dicembre 2020 ha rischiato pure il fallimento, è stato deferito dalla procura e rischia nuove penalizzazioni.
Fase-2
In tutto questo marasma, il progetto Livorno Popolare si pone come una speranza per la comunità amaranto. Ora è iniziata la fase-2, con la manifestazione d’interesse alla società per vedere i libri contabili. Allo studio c’è la fattibilità del progetto, vero punto di domanda. Dalla società sono già arrivate le prime risposte positive. Al vaglio ci sono quote minime, probabilmente tra 200 e 400 euro, e sistemi anti-scalata. Ma per cucire il vestito più adatto alla situazione labronica, Livorno Popolare sta guardando anche alle esperienze che l’hanno preceduta. In Italia e all’estero.
L’azionariato popolare in Italia
Da Arezzo a Taranto, da Tortona a Fasano, da Venezia ad Ancona. Fino a Piacenza, San Benedetto del Tronto e Carrara. Gli esempi italiani, da una decina d’anni, si moltiplicano, anche grazie alla rete Supporters in Campo. Esperienze diverse, più o meno fortunate. E non tutte con l’ambizione di conquistare la maggioranza del club. L’azionariato popolare nel calcio italiano è ancora un modello in via di sviluppo, da non confondere con le realtà di calcio popolare vere e proprie, dove ultras e tifosi hanno creato club ad hoc completamente dal basso. Dall’Atletico San Lorenzo di Roma allo Spartak Lecce, dall’Ideale Bari al napoletano Quartograd e al Centro Storico Lebowski di Firenze. Proprio quest’ultimo club è tra gli esempi di Livorno Popolare, in particolare per lo sviluppo della scuola calcio. Realtà alternative, modelli sociali lontani dal calcio-business e dalle luci delle serie maggiori.
In Europa
Fuori dai confini nazionali, invece, questo nuovo modo di intendere il calcio è molto più radicato. La Spagna, che ha regole più inclini alle forme associative, prevede la partecipazione diretta dei socios (il Barcellona ne conta circa 163mila, ma esempi virtuosi sono anche Real Madrid, Athletic Bilbao e Osasuna). In Germania, addirittura, vige la regola del 50%+1 delle quote per garantire la maggioranza. Con solo due eccezioni: Wolfsburg e Bayer Leverkusen, dove, rispettivamente, i colossi Volkswagen e Bayer sono stati avallati dai soci. Importanti, in Bundesliga, gli esempi di Bayern Monaco, Werder Brema, Union Berlin e St.Pauli, mitica squadra di “pirati” nel quartiere del porto di Amburgo. Da non dimenticare, infine, l’esempio della patria del football: il Regno Unito. Dove, a partire dal 1997, con la trasformazione della First Division in Premier League, sono stati costituiti oltre 160 Supporters’ Trust. Dall’Arsenal al Wimbledon, dal Swansea al Fc United of Manchester, la squadra “ribelle” nata da una costola del glorioso Manchester United.
Democrazia partecipativa nel calcio: unico futuro possibile?
Assemblee di soci, cda interni ad associazioni, voti su questioni cruciali per il proprio club. Il modello dell’azionariato popolare, a prescindere dalla veste giuridica formale che si può adottare, porta il calcio verso una democrazia partecipativa. Non spettatori ma soci. Non clienti ma proprietari del proprio club. Questo è il cambio di paradigma che sembra indicare un futuro possibile per il calcio italiano. Inutile illudersi: gli scogli maggiori restano la sostenibilità economico-finanziaria e quella sportiva, ma la strada sembra tracciata. Verso un calcio più partecipato. E più popolare.