Palmisano e il Pensiero Meridiano: «Mediterraneo tradito, l’Europa deve offrire diritti»
«Il Pensiero Meridiano nasceva in un periodo storico in cui il Mediterraneo guardava con speranza all’Europa, che purtroppo però ha tradito quelle speranze».
Leonardo Palmisano è un imprenditore, un sociologo e uno scrittore coraggioso. Ha scritto opere come “Ghetto Italia” (insieme a Yvan Sagnet) e “Mafia Caporale”, raccontando il fenomeno criminale delle nuove schiavitù in Italia e subendo anche minacce di morte. Un intellettuale che il Mediterraneo lo conosce bene, e in Puglia si è confrontato con il professor Franco Cassano, scomparso il 23 febbraio, padre del Pensiero Meridiano, che ha restituito centralità proprio al Mare nostrum e al Sud.
«Noi europei tendiamo a non riconoscere la nostra identità mediterranea – spiega Palmisano -, la centralità di questo mare. È la culla dei monoteismi e della democrazia. È il luogo dove nascono i valori e le identità europee. Quanto la Francia deve al Mediterraneo la propria grandeur? Quanto la Germania deve alla stessa area del mondo? Il Mediterraneo non è periferia, è centro. Le nostre difficoltà a riconoscerlo e a riconoscerci nel Mediterraneo dipendono dal fatto che viene vissuta come terra di prossimità, dove si incontrano popoli ed etnie diversi, una dimensione che spaventa e non è sintetizzabile in una sola realtà continentale».
Chi era Franco Cassano?
«Nella sua terra è stato il padre della Primavera pugliese, cioè dell’era che ha visto rifiorire questa regione grazie alla svolta politica del 2005 e alla vittoria del centrosinistra. È stato però anche un pensatore di caratura europea. Poco riconosciuto sotto questo aspetto, perché non era un uomo di potere ed era una persona di grande umiltà».
Far crescere il Mediterraneo potrebbe essere anche una scelta geopolitica in grado di ridare una collocazione più centrale all’Italia e al Mezzogiorno…
«La crisi greco-italiana di inizio decennio scorso è stata per esempio una crisi del Mediterraneo. È impossibile far crescere quest’area perché non è una zona pacificata del mondo. Non si può creare un florido mercato, laddove c’è la guerra. E qui non c’è pace, perché non c’è democrazia. Bisogna per esempio ridimensionare Erdogan, è sotto gli occhi di tutti che in Turchia è scomparsa l’Europa. È necessario riportare la pace in Siria. Consiglierei di ritirare l’ambasciatore italiano dall’Egitto, perché Al-Sisi è evidente che non è un interlocutore credibile. Si deve permettere ai libici di decidere il proprio futuro. Bisogna parlare del problema di democrazia che c’è in Marocco, in Algeria (leggi l’articolo sul movimento Hirak) e in Libano. Bisogna riconoscere la necessità dell’esistenza di uno Stato palestinese».
Spesso però l’Europa, quando si interessa delle situazioni di questi paesi, provoca molti danni…
«Perché di solito l’Europa interviene con la forza militare, andando incontro a fallimenti clamorosi come in Libia, dove la Francia ha fatto il grave errore di uccidere Gheddafi. Oppure opta per la coercizione economica, che ora però è un’ipotesi impraticabile, perché la potenza cinese è invincibile su questo piano».
E allora qual è la risorsa europea da spendere per cambiare le cose?
«I diritti. Bisogna riaprire le frontiere ai figli di questa Africa. Dimostrare la forza e la bellezza di un modello fondato sulla democrazia. Diventare creditori di diritti e dignità. Solo così l’Europa potrà ottenere un reale cambiamento, che permetta di crescere. Perché il nostro continente può guardare solo all’Africa e al Mediterraneo se vuole farlo. E la democrazia, lo stato di diritto sono le nostre vere uniche e potenti risorse. Non sono gli Stati Uniti la più grande democrazia del mondo, è l’Ue, che finalmente sta anche avviando, dopo questa pandemia, una trasformazione interna. Malgrado il caso dell’Ungheria, interno all’Unione Europea, non c’è nessun continente dove sia garantita più pace e libertà del nostro, che proprio da questa risorsa deve ripartire».
I diritti quindi oggi sono una risorsa?
«Senza diritti non c’è benessere. Si pensava che il benessere fosse garantito dalla prosperità economica, ma non è così, la pandemia lo ha dimostrato. Le zone più ricche del mondo sono state travolte dall’epidemia. La crescita economica non è più una garanzia da sola».
Diritti significa anche puntare sui servizi…
«In Lombardia, per esempio, regione ricca, si è disinvestito negli anni nella sanità di prossimità e questo è stato un grave errore. È a causa di questa scelta che ad inizio epidemia lì ci si è trovati impreparati. Eppure c’è chi al Sud chiedeva di imitare il modello lombardo. Quello che bisogna invece fare è ricominciare a investire nella sanità anche al Sud, perché quel sistema, che veniva definito di eccellenza in Lombardia, ha prosperato per le mancanze e i disinvestimenti che negli ultimi anni si sono fatti nella salute nel Mezzogiorno. È stato letteralmente foraggiato anche dalla fuga dei malati, che andavano a farsi curare al Nord, di fronte a un sistema ospedaliero che nel Sud veniva smantellato».
Eppure il Sud sembra ancora considerata un’area in cui disinvestire perché per crescere bisogna puntare sul Nord.
«Non parliamo di Nord ormai, ma solo di Lombardo-Veneto. C’è un’idea anche geopolitica per cui la crescita dell’Italia debba coincidere con lo sviluppo di quest’area, agganciata alla locomotiva tedesca. Anche Confindustria sembra condividere questa strategia. È un modello di sviluppo sbagliato però. Così come il Sud non può cullarsi in fantasie separatiste e neoborboniche, il Nord se pensa di andare da solo fa male a sé stesso. Il Paese non è mai cresciuto così poco come quando si è fermato il Mezzogiorno».
Il nuovo governo sembra aver messo da parte la questione meridionale…
«Il problema del Sud è infrastrutturale e di sviluppo. Mi pare ci siano diversi segnali che ci dicono che questo governo non invertirà la tendenza degli esecutivi che premiano il Nord. La composizione per esempio ci dice che la maggior parte dei ministri non proviene dal Sud e non significa poco. Poi io come imprenditore meridionale sono spaventato, visto che il ministero dello Sviluppo economico finisce nelle mani di Giancarlo Giorgetti, cioè diventa a trazione leghista, ideologicamente orientato all’idea che il paese cresce se cresce il Lombardo-Veneto. La verità è che questa parte del Paese si è sentita defraudata dal precedente governo, cosa non vera, e Matteo Renzi ha provocato la crisi del precedente esecutivo per venire incontro a questo sentimento, inutilmente, perché si tratta di elettori che votavano e voteranno Lega. Per questo invito il presidente della regione Puglia Michele Emiliano a chiamare a raccolta i governatori del Sud e creare un tavolo del Mezzogiorno sui 209 miliardi».
Cosa ne pensa del nuovo governo?
«Io ero favorevole ad andare al voto già nel 2019. Penso che il governo Draghi sia nato a causa di due crisi politiche (agosto 2019 e gennaio 2020) determinate da un eccesso di personalismi, ma anche per un risultato elettorale nel 2018 che non ha visto la vittoria netta di nessuna forza. Ritengo soprattutto che l’ingresso del partito di Matteo Salvini in questo governo sia stato un grave errore. Non credo che il ruolo di Mario Draghi sia quello di salvare la politica, come qualcuno ha scritto, e pronostico una durata breve, il tempo di scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Poi i suoi due opposti sostenitori (Pd e Lega) ricominceranno la campagna elettorale e ci porteranno ad elezioni. D’altronde due sono i ministeri che contano davvero nella partita sulla ricostruzione economica, quello che (come detto sopra) è stato affidato a Giorgetti e quello del Lavoro affidato ad Andrea Orlando (Pd). Lo scontro è inevitabile».
Cosa ne pensa della situazione interna al Pd, invece, partito con cui lei si è candidato nelle ultime elezioni regionali in Puglia?
«Io credo che si debba tornare a fare un congresso vero. Un congresso per tesi e non per primarie, che non si basi solo sulla scelta del nome del leader. Bisogna basare la sfida congressuale sulle idee, perché la gente oggi vota chi esprime idee chiare. Il governismo, cioè la scelta del leader basata solo sulle capacità di vincere e governare non basta più, l’elettore premia chi vuole affrontare determinati problemi. Ci sono due principali anime nel partito, una parte neo-renziana, che vorrebbe l’eliminazione delle correnti e del dibattito interno accontentandosi solo di una forza capace di occupare le istituzioni, e una laburista, che invece riporti al centro i temi cari alla gente e alla sinistra. Se questa parte non prevarrà, il Pd imploderà come sta succedendo ai Cinque Stelle».
Come legge la crisi del Movimento Cinque Stelle?
«Non siamo più in un’era post-ideologica. Questa è un’era profondamente ideologica. Lo dimostra il successo della destra sovranista. Il M5s ora lo ha capito e si è dotato di un tema chiave: l’ambientalismo. In Italia però, elettoralmente, funziona poco».
Lei si è occupato di mafie. Come descriverebbe la situazione delle mafie nella sua Puglia, dopo un anno di pandemia?
«Da una parte sembrano stanche di queste restrizioni, che hanno causato l’innalzamento dei costi logistici per il traffico di stupefacenti. Dall’altra però i consumi di droga non sono diminuiti, anzi. Molti clan poi hanno messo le mani e distribuito i soldi che sarebbero dovuti servire per la solidarietà, riconquistando consensi e territori. Infine guardano già con interesse agli appalti per la ricostruzione dell’Italia nel post-Covid. Insomma, hanno una grande capacità di adattamento a tutte le trasformazioni del Paese. E ritengo che nel futuro due cose non possiamo più tollerare, se vogliamo tornare a crescere: mafia ed evasione fiscale».