Lo sciopero dell’intera filiera produttiva e distributiva di Amazon proclamato da Filt Cgil, Fit Cisl e Uilt per il 22 marzo rappresenta indubbiamente un fatto storico, se non altro per essere il primo al mondo di questa portata. Esso, tuttavia, si pone in continuità con le numerose istanze, rivendicazioni, sentenze e normative introdotte negli ultimi anni nel complesso mondo della cosiddetta gig economy e del capitalismo delle piattaforme, le quali hanno portato dal retroscena alla ribalta la materialità delle condizioni di lavoro estenuanti che affliggono il settore della logistica, della grande distribuzione organizzata e della consegna a domicilio.
Il capitalismo delle piattaforme
L’economia digitale e le sue molteplici ramificazioni sono ormai entrate a far parte del lessico quotidiano. Non passa giorno in cui non si senta parlare delle capacità delle nuove tecnologie digitali di intervenire in vari ambiti del sociale: dalla medicina alla transizione ecologica, passando per l’automotive, l’elettronica ed il lavoro. Tra le varie implicazioni che la sindemia[1] di Covid-19 ha comportato, sia dal punto di vista economico-produttivo che da quello più squisitamente sociale, una in particolare si è rilevata decisiva: spostare dal retroscena alla ribalta l’insieme di lavori fondamentali per la riproduzione della nostra vita quotidiana. Detto in altri termini, ha reso visibili questi lavori e le condizioni con cui vengono eseguiti. Infatti, andando oltre l’aura mistica dell’ideologia californiana, l’economia digitale rappresenta un contributo diretto alla frammentazione ed intensificazione del processo lavorativo nell’ambito di quello che è stato definito capitalismo delle piattaforme.
Estrema precarietà
È all’interno di questo quadro che hanno proliferato le piattaforme digitali della gig economy, quali ad esempio quelle della consegna a domicilio (Glovo, JustEat, Mymenù ecc.), di trasporto urbano (ad esempio Uber, Cabify, Bolt), di affitto a breve termine (Airbnb). Il modello di business di questo tipo imprese si è incardinato nella logica della deresponsabilizzazione e di una fuga dalla subordinazione, portando all’estremo quindi condizioni di precarietà preesistenti sulla base di un sistema contrattualistico estremamente variegato. La giustificazione addotta fino ad oggi dalle piattaforme digitali si è basata sullo stratagemma tecnologico e su uno spostamento semantico, cioè a dire esse si definiscono unicamente come società di intermediazione tecnologica e rifuggono dalla terminologia giuslavorista per identificare chi lavora con (per) loro.
Un gigante “essenziale”
La pandemia di Covid-19 e l’arcobaleno di lock-down dipinto dai governi hanno posto con vigore la distinzione (seppur artificiosa) tra lavori “essenziali” e non essenziali. Tale dicotomia si regge su un confine in realtà difficile da definire con precisione: da un lato i processi lavorativi che non possono essere sospesi al fine di garantire la filiera di beni e servizi fondamentali, dall’altro tutto il resto. Tralasciando l’artificiosità di tale distinzione, ciò che è interessante rilevare è che nel perimetro dei lavori essenziali sono stati inseriti una serie di professionalità e mansioni connotate da condizioni di lavoro precarie ed estenuanti, dunque con scarse tutele e spesso retribuite poco. I lavori della gig economy sono emblematici da questo punto di vista. Ugualmente, il settore della logistica e della grande distribuzione organizzata è stato considerato “essenziale”, poiché è lungo le loro filiere che si muovono i flussi di merci necessari per la riproduzione della vita quotidiana. Amazon rappresenta l’attore dominante di questo settore.
Effetto pandemia
Il gigante di Seattle è leader (tra le altre cose) dell’e-commerce ed è riuscito negli anni a diventare una infrastruttura sulla quale si poggiano anche attori governativi e servizi di distribuzione pubblici, oltre che altre imprese private. Durante la pandemia, al pari delle altre imprese del capitalismo delle piattaforme, Amazon ha conosciuto una espansione senza precedenti della propria dimensione (sia in termini organizzativi che di profitto), superando la soglia di 1,2 milioni di addetti su scala globale (solo nel 2020 ne ha assunto oltre quattrocento mila). Per quanto riguarda il caso italiano, la filiera dell’impresa di Seattle è composta di circa 40 mila addetti, di cui 9500 dipendenti diretti di Amazon Italia Logistica.
Il mondo a domicilio
Per quanto concerne la dimensione contrattuale, a differenza di molte piattaforme digitali della gig economy, Amazon (perlomeno nel contesto italiano) ha inquadrato i propri dipendenti con il CCNL della logistica, dunque garantendo formalmente l’ampio spettro di diritti previsti da questo quadro contrattuale. Ma la materialità delle condizioni di lavoro ha mostrato una realtà più complessa, data ad esempio da un monitoraggio oppressivo della prestazione lavorativa e da carichi di lavoro estenuanti, derivanti dall’impennata di richieste on-line durante il periodo della pandemia. È su questa base – rafforzata dalla critica all’accresciuto accentramento della ricchezza nelle mani di poche aziende dell’economia digitale a discapito di una dilagante diffusione del lavoro impoverito – che i principali sindacati confederali e di base hanno avanzato le rivendicazioni, rendendo visibili la degradazione delle condizioni di lavoro che permettono di “consegnare il mondo a domicilio”.
Dipendenti o autonomi?
La fase pandemica ha permesso, quindi, di attivare o approfondire una serie di mobilitazioni che da tempo le organizzazioni sindacali conducevano, riuscendo in alcuni casi ad avviare dei tavoli di contrattazione ai livelli ministeriali. Tra gli esempi più significativi vi sono indubbiamente le recenti conquiste ottenute dai lavoratori e dalle lavoratrici della gig economy, come dimostrato dalla storica decisione di Uber di assumere come dipendenti (e dunque garantire loro una paga minima, infortuni, malattia, ferie ecc.), a seguito della sentenza della Corte Suprema del Regno Unito, i circa 70 mila autisti operanti in quel contesto geografico. Oppure, il riconoscimento da parte del Tribunale del lavoro di Milano della condizione di subordinazione dei rider di UberEats, richiedendo alla piattaforma digitale di consegna del cibo di assumere gli oltre 60 mila ciclo-fattorini. Ma gli esempi sono molteplici, anche di situazioni inverse. Un caso su tutti è quello della California, dove invece è stata riconosciuta la condizione di autonomia degli autisti.
Braccia incrociate
Lo sciopero di oggi 22 marzo rappresenta la volontà e la possibilità da parte di lavoratrici e lavoratori di organizzarsi in un contesto ancora poco sindacalizzato e avviare percorsi di alternativa rispetto alla impostazione egemonica di Amazon. Rendere visibile l’invisibile, in particolare attraverso forme rivendicative come lo sciopero, mostra il lavoro incorporato nei pacchi che quotidianamente arrivano nelle nostre case, realizzato attraverso i “corpi e le menti” di una molteplicità di lavoratrici e lavoratori posizionati lungo i nodi delle filiere di produzione e distribuzione. Ma non solo. Come dimostra la lettera aperta che i sindacati hanno indirizzato agli utenti di Amazon per richiedere solidarietà e appoggio, questo sciopero si pone come obbiettivo anche quello di stabilire una connessione tra consumatori e lavoratori per aumentare la capacità di azione e la portata rivendicativa.
[1] Il termine sindemia (una crasi di sinergia, epidemia, pandemia e endemia) nasce nell’ambito dell’antropologia medica con lo scopo di evidenziare la complessa interazione tra più malattie e gli effetti che ne derivano non solo sulle persone, ma sulla società nel suo complesso.