Una donna in elegante tailleur interroga dodici persone sedute in semicerchio in una stanza anonima. La conversazione è ripresa da una telecamera e dietro un falso specchio ci sono alcuni uomini che prendono appunti. È la classica cornice di una banale ricerca di mercato, ma il prodotto che si vuole vendere è la guerra. Questa scena del film ‘Vice – L’uomo nell’ombra’, dove Christian Bale interpreta magistralmente Dick Cheney – il vice presidente degli Stati Uniti sotto l’amministrazione di George W. Bush -, rappresenta uno dei gruppi di riflessione gestiti da dirigenti pubblicitari che il Pentagono creò nel 2002 per vendere l’invasione dell’Iraq all’opinione pubblica americana.
La seconda guerra del Golfo iniziò così, e finì con la totale destabilizzazione del Medio Oriente e la nascita dell’Isis.
Il 20 marzo di 18 anni fa le truppe americane attaccavano l’Iraq. Poco più di un mese dopo, dalla portaerei Abraham Lincoln il presidente Bush annunciava al mondo: «Mission Accomplished». Quello che accadde poi è noto. Meno si è parlato però in questi anni di come si arrivò a quel conflitto. Un conflitto dove di fatto i pubblicitari hanno avuto un ruolo maggiore dei generali.
Premesso che nel 21esimo secolo nessuno ha voglia di ammazzare o farsi ammazzare per Dio, la patria e la famiglia, e premesso che nessuno, in ogni epoca, è mai stato disposto a perdere figli, mogli o mariti per riassegnare i diritti di estrazione su dei pozzi petroliferi; l’amministrazione Bush si trovò nella situazione di dover convincere la Nazione e il mondo che l’Iraq rappresentasse una minaccia. Le balle che uscirono dalla bocca di Tony Blair e Colin Powell hanno fatto la storia. Ma per vendere la più assurda delle guerre ci volle molto di più. Con l’invasione del 2003 è arrivato a compimento il processo del passaggio dalla propaganda alla pubblicità, dalla politica al mercato, e la guerra è stata trattata interamente come un prodotto da vendere.
Arrivano i pubblicitari
«Ti senti frustrato e arrabbiato, odi il terrorismo. Ma sei confuso. Saresti meno confuso se Al Qaida fosse una nazione invece che un’organizzazione interstatale?».
«E se quella nazione fosse l’Iraq?»
«Già che ci sei, che ne dici di un nuovo paio di Nike?».
Creare un bisogno, vendere il prodotto. Per vendere l’invasione dell’Iraq a un’opinione pubblica che giustamente si chiedeva quale nesso ci fosse fra Saddam Hussein e gli attentati dell’11 settembre, Casa Bianca e pentagono reclutarono i guru delle pubbliche relazioni. Ed ecco arrivare i veri generali della guerra al terrorismo. Il segretario della Difesa Donald Rumsfeld chiamò Victoria ‘Torie’ Clarke, dell’agenzia di pubbliche relazioni Hill & Knowlton; mentre Colin Powell dopo l’11 settembre scelse come sottosegretario di stato la famosa pubblicitaria Charlotte Beers.
Per baggianate come “Operazione Iraqui freedom”, “portare il balsamo della libertà” ed “esportare la democrazia” si può ringraziare la campagna della signora Beers. Clarke consigliò invece al Pentagono di collegare il terrorismo a stati nazionali in quanto gruppi terroristici nebulosi come Al Qaida confondevano l’opinione pubblica, ovvero i consumatori. Per la campagna pubblicitaria era molto più utile un obiettivo fisso su cui sganciare missili e bombe a grappolo. Da qui si arrivò agli “stati canaglia” e all’”asse del male”.
Per fare un guerra servono soprattutto dei bravi pubblicitari, e che il cittadino/consumatore sia facilmente circuito da una campagna di marketing ben orchestrata è plausibile. Quantomeno grottesco è però il modo in cui si fece infinocchiare la stampa.
Nei mesi precedenti l’invasione l’amministrazione Bush mise in piedi una serie di strutture informative – L’office of Strategic Influence, l’Office of Special Plans e l’Office of Global Communications – con lo scopo di ingannare i media facendo filtrare informazioni false ma verosimili per far credere ai giornalisti di aver interpellato fonti autentiche che confermassero l’esistenza dell’arsenale chimico/nucleare di Saddam Hussein. Difficile dire in quanti vennero effettivamente raggirati e quanti invece fossero in mala fede. Nell’estate del 2004 il direttore del New York Times in un editoriale chiese scusa ai lettori ammettendo di aver sostenuto una guerra ingiusta. Troppo tardi.