Esattamente 10 anni fa, sull’onda delle primavere arabe, iniziò la rivoluzione siriana contro il regime di Bashar al-Assad. Dalle manifestazioni di piazza represse nel sangue si arrivò alla guerra civile, che creò il terreno fertile per la nascita dello Stato Islamico. Non c’è ancora pace in quella terra, ormai devastata e spopolata. Per raccontarvi com’è iniziato tutto, su Ventuno pubblichiamo alcuni stralci di un reportage realizzato nel 2019. Il testimone è Ismail, nome di fantasia, un siriano che vive attualmente nel sud della Turchia, e che ha fatto parte della resistenza.
Ismail è originario di Jarabulus, una cittadina sull’Eufrate, a nord-est di Aleppo, che dieci anni fa contava non più di 12mila abitanti. Vive con la moglie e i due figli in una zona periferica di Gaziantep, in un piccolo appartamento al pian terreno di una palazzina. Sono passati diversi anni dall’inizio della rivoluzione, ma per lui, che l’ha vissuta da protagonista, i ricordi sono molto vividi.
«Come siriano, rimasi scioccato quando Assad mise il mio nome nella lista dei terroristi. Non ho mai impugnato una pistola, non so costruire una bomba. Posso solo usare una penna, per insegnare ai bambini il significato di libertà e di umanità in questo mondo. Ero un insegnante a Jarabulus».
Ismail è un uomo molto religioso, ma laico. Veste all’occidentale, tiene la barba corta e curata, fuma molto e sua moglie non porta il velo. La sua tazzina da tè deve essere sempre piena, così la rabbocca mentre parla del passato.
Le proteste
«Il 15 marzo del 2011 le proteste iniziarono in Siria. Prima erano partite in Libia, Egitto. Eravamo felici perché volevamo cambiare il governo, perché dagli anni ’60 abbiamo avuto due presidenti, prima Assad, poi suo figlio».
Le proteste non erano scoppiate solo per i movimenti dei paesi vicini. C’era stato un caso a Dar’a, pochi giorni prima, che aveva sconvolto la popolazione. Un gruppo di ragazzi aveva scritto alcuni graffiti contro il governo e la polizia li catturò, prelevandoli dalle loro case, per poi torturarli.
«Ricordo che ero in casa, stavo cenando, quando uno dei miei studenti bussò alla mia porta e disse “professore, stiamo protestando in piazza”, ed era così felice. Mia moglie cercò di fermarmi, disse di pensare ai bambini, così le promisi che non avrei fatto nulla di stupido. Là trovai, fra i manifestanti, una quindicina dei miei parenti. Erano circondati dalla polizia di Assad, armata fino ai denti. Ero così spaventato, ma mi unii a loro e iniziammo a urlare in coro “hurriya, hurriya, hurriya”, ossia libertà, così come il nome di Hamza al-Kathib».
All’inizio, i poliziotti non avevano attaccato i manifestanti, ma uno di loro, vecchio conoscente di Ismail, lo aveva preso in disparte, lo aveva avvertito di tornare a casa. «Tre giorni dopo, il venerdì, dopo la seconda preghiera, sentii i rumori della protesta. Vennero a trovarmi alla porta per dirmi che tre dei miei cugini erano stati uccisi. Non potevo accettarlo, presi la mia moto e raggiunsi gli scontri. Trovai il cadavere di uno di loro, aveva il foro di proiettile all’altezza del cuore. Ero disperato, ma cercai di non farmi prendere dall’odio, dalla sete di vendetta. Non doveva trasformarsi in una lotta personale, era appena nato un movimento. Volevamo solo libertà, cambiare. Ma Assad rispondeva con il fuoco».
Alla fine di aprile, un ragazzino di 13 anni, Hamza al-Kathib, fu catturato durante una protesta, anche lui a Dar’a. Fu tenuto prigioniero per un mese e alla famiglia fu restituito il corpo a fine maggio, dopo le torture e le mutilazioni. Hamza al-Kathib divenne uno dei martiri della protesta, nonché uno dei nomi che venivano ripetuti in coro più spesso durante le manifestazioni del venerdì.
Ismail era sconvolto perché al-Kathib aveva l’età dei suoi studenti. Suo padre, invece, era terrorizzato. Memore delle atrocità compiute dalla Fratellanza Musulmana della Siria negli anni ’80, non voleva che Ismail prendesse parte alle manifestazioni, aveva paura delle radicalizzazioni. Non erano tutti uniti contro Assad, c’era anche chi si opponeva alla protesta, che si schierava con la polizia, che alzava manifesti e fotografie di Bashar, o che addirittura veniva pagato per picchiare gli oppositori nei cortei. Ismail racconta che, tre anni dopo, quelle persone si unirono all’Isis. C’erano molte spie del governo, per questo Ismail fu facilmente segnalato insieme agli altri manifestanti. Dopo una settimana, fu licenziato dal preside della sua scuola. “Se vuoi vivere sotto Assad, devi farlo come un cane”, racconta. Nei mesi successivi, la città si riempì di militari. Ogni settimana, dopo la preghiera alla moschea del venerdì, le persone si riunivano e intonavano cori di protesta, a cui le forze dell’ordine reagivano con la forza. Andò avanti così fino al 2012.
La resistenza
All’inizio dell’anno, i manifestanti decisero di organizzarsi e di reagire. Temevano di essere uccisi o catturati durante la notte, così crearono la loro frangia dell’Esercito Libero Siriano, nato il 29 luglio 2011 da alcuni ufficiali disertori e il cui obiettivo era proteggere i civili dalla violenza dell’esercito. Dalle zone circostanti, Afrin, Al Bab, A’zaz, arrivarono molti aiuti, molti uomini volevano partecipare alla resistenza. Contemporaneamente, arrivarono anche autobus pieni di soldati da Aleppo, per spaventare la popolazione. Coloro che volevano resistere non avevano però armi, né strumenti con cui crearne. «Avevamo qualche molotov, qualche fucile antico. Poi c’era il gas, che un gentile fornitore dell’esercito ci diede gratuitamente, supportava la nostra causa».
Mentre in tutta la Siria nascevano gruppi antigovernativi e crescevano le file dell’esercito libero, Assad concesse una nuova costituzione in febbraio e il 7 maggio ci furono le elezioni, ma vinse col 67% di preferenze. «Ci furono proteste, eravamo certi avesse imbrogliato. In Jarabulus chiedemmo di vedere i nomi degli elettori nei registri e fra loro c’erano persone decedute».
La battaglia di Aleppo
La mattina del 15 luglio, i soldati di Assad bussarono alla porta di Ismail e lui e la famiglia furono costretti a nascondersi. Iniziarono gli scontri con la resistenza e sua moglie recuperò i genitori per poi fuggire di notte insieme, verso Aleppo, restando nella campagna per tutto il giorno. Al loro ritorno la città era in silenzio, svuotata. I combattimenti erano andati avanti per 48 ore ed erano culminati con una bomba che aveva ucciso molti uomini della polizia di Assad. «Non per vendetta, per libertà. Noi sapevamo qual era il prezzo da pagare per vivere nel regime». Dopo l’esplosione, molti militari scapparono a nord, verso il confine turco, o a Kobane, per paura di altre ritorsioni. La battaglia si era poi spostata sulla strada verso Aleppo e il 20 luglio, l’esercito libero siriano aveva sconfitto le truppe governative. La città era stata quindi liberata, ma era diventata un bersaglio dei bombardamenti, mentre Aleppo era divisa, come una Berlino mediorientale.
«Jarabulus è stata libera da quel momento fino al 2014, quando entrò sotto il controllo dell’Isis. Quell’anno e mezzo fu molto bello, potevamo annusare il significato della parola “libertà”. Governavamo la città senza polizia, senza soldati. Potevamo parlare, lavorare, fare quello che volevamo» dice Ismail.
Era diventata un’isola felice, ma il resto del paese era ancora in guerra. Aleppo stessa era in fiamme. «Dopo 4 o 5 mesi, ricevetti di notte la telefonata di un amico nell’esercito libero, che si trovava a Dar’a. Mi chiese se andasse tutto bene, mi stava raccontando le azioni che avevano fatto». Mentre parlavano, la telefonata si interruppe e non ebbe più notizie. Tempo dopo, riuscì a contattare suo fratello, che gli spiegò che era stato rapito dagli uomini di Assad proprio in quel momento, intercettato durante la telefonata. «Avevamo fatto insieme il servizio militare. Era come un fratello per me».
L’inganno dell’Isis
La tranquillità durò infatti poco. Lo Stato Islamico non usò la forza per conquistare la zona. «Ci ingannarono», racconta Ismail mentre si accende un’altra sigaretta. Inizialmente, l’Esercito Libero accettò i jihadisti fra i loro ranghi in quanto oppositori del governo. Si unirono persone dall’Egitto, dallo Yemen, dai Balcani, che mescolarono all’opposizione per Assad anche questioni religiose. Nel frattempo, alcuni i membri dell’esercito libero che si erano stanziati nella zona si diedero al saccheggio e per molti, i nuovi arrivati di al-Nusra sembrarono una risposta al bisogno di pace. Fra questi c’era Ismail, che non si era reso conto immediatamente di chi fossero. Dopo di che, i jihadisti iniziarono le decapitazioni e Assad trasmise le immagini in modo martellante, dicendo che gli autori erano quelli dell’esercito libero. al-Nusra crebbe sempre più, chiamando a sé i vari gruppuscoli che univano la lotta politica a quella religiosa e così fondò il Daesh, lo Stato Islamico. La potenza delle sue armi e il fanatismo dei suoi soldati resero impossibile continuare a vivere a Jarabulus.
La fuga
Ismail fu costretto a scappare, travestendosi come uno di loro. «Al checkpoint dell’Isis, i jihadisti ci fermarono e ci perquisirono. Abbiamo recitato la parte, con l’aiuto di Allah. Per fortuna non hanno trovato il pacchetto di sigarette che avevo nascosto. Per loro era sufficiente fumare per essere giustiziati».
Dopo aver oltrepassato il settore controllato dal Daesh, Ismail buttò via il travestimento e arrivò ad A’zaz, che era ancora controllata dall’Esercito Libero. Da lì, puntò al confine verso Kilis. C’erano centinaia di siriani, lui e la sua famiglia si mescolarono alla folla e avanzarono, mentre le guardie turche urlavano loro di fermarsi e sparavano colpi d’avvertimento. «Varcammo comunque il confine e lo stesso soldato che aveva sparato venne a darci una mano. Ricordo che lo ringraziai, gli diedi un po’dei soldi che avevo con me».
Ismail finisce il racconto e così anche il tè. Ora vuole giocare a scacchi ed è imbattibile. Forse, il merito è del suo autocontrollo.