Ultimo tango per la censura in Italia. Il rapporto tra film e censura è sempre andato di pari passo nel nostro Paese. Ma il 5 aprile 2021 il ministro della Cultura Dario Franceschini ha scritto la parola fine grazie a un decreto per l’istituzione della commissione per la classificazione delle opere cinematografiche. Che detta così sembrerebbe una supercazzola del conte Mascetti in Amici miei. Ma che, nella realtà, rappresenta una «modifica radicale del sistema di controllo sulle opere cinematografiche che consentiva allo Stato di intervenire sulla libertà degli autori», come spiega la Cineteca di Bologna sul proprio profilo social.
Il decreto
In sostanza, la direzione generale cinema del ministero della Cultura potrà limitarsi al controllo della corretta classificazione delle opere da parte degli operatori in quattro categorie. Da quelli adatti a ogni tipo di pubblico a quelli vietati ai minori di 6, 14 e 18 anni. Ma a fare questa distinzione, basata sull’età degli spettatori più piccoli, saranno gli stessi produttori cinematografici con lo Stato a verificare l’esatta collocazione. Non ci saranno dunque più i tagli, i divieti di uscita e le conseguenti querelle in tribunale. Ventuno ha selezionato alcuni film italiani, più una sorpresa finale, che hanno subito la censura in Italia (leggi anche Cinema marziano). Dai primi casi di 108 anni fa fino ai più recenti alle soglie del 2000 passando per la censura in Ultimo tango a Parigi di Bertolucci.
I tagli del regime
Nel 1913 ci fu il primo film a subire dei tagli, Florette e Patapon, per via della legge appena approvata nel giugno di quell’anno. Nella pellicola, la protagonista sedeva sulle ginocchia dell’amante e tradiva il marito. Abbastanza per applicare dei tagli. Durante il regime fascista ci fu un inasprimento dei tagli e dei blocchi alle uscite, volti in particolare a limitare quei film, specialmente stranieri, che danneggiavano l’immagine del fascismo e dei miti che esso osannava. Per cui Westfront di Pabst e All’ovest niente di nuovo di Milestone non ebbero visibilità in quanto raccontavano la crudezza della guerra di trincea. Così come Addio alle armi di Borzage che subì analoga sorte dell’opera di Hemingway. Il club dei 39 di Hitchcock che nel doppiaggio italiano cambiò luogo di ambientazione dalla Scozia al Canada, per nascondere l’antinazismo della pellicola. Così come avvenne per Il grande dittatore di Chaplin nella sua critica diretta al regime nazista con il personaggio di Hynkel, parodia di Hitler. L’opera di Chaplin uscì in Italia solo a guerra finita.
Il Visconti censurato
La scelta per quest’epoca ricade su Ossessione di Luchino Visconti, del 1943. Il film, da più critici, viene considerato uno degli archetipi del neorealismo italiano.
Il personaggio di Gino, interpretato da Massimo Girotti, subisce il fascino di alcune signore sposate del luogo fino a divenire l’amante di Giovanna, Clara Calamai. Per le donne del fascismo non esisteva l’attrazione sessuale e vedere un adulterio sullo schermo non era consentito. Per di più in un viaggio ad Ancona il protagonista fa amicizia, non senza qualche avvicinamento, con un omosessuale socialista spagnolo. Davvero troppo per il regime che bandisce il film dopo l’uscita in alcune sale e ne distrugge le altre copie.
Andreotti e Scalfaro censori
«I panni sporchi si lavano in casa», è una delle massime che più appartiene a Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e una vita a guidare la Dc e le redini dell’Italia post-bellica.
All’uscita di Umberto D., film di Vittorio De Sica scrisse: «Il regista rende un pessimo servizio all’Italia di metà Novecento attraverso una rappresentazione non veritiera».
Nel suo ruolo di sottosegretario allo Spettacolo, Andreotti capì quanto il cinema fosse fondamentale nella delicata fase politica della ricostruzione. E il linguaggio filmico doveva sottostare ai canoni dell’Italia democristiana. Andreotti visionò centinaia di pellicole, tagliando scene e modificando dialoghi, impedendo l’uscita di film di stampo progressista, limitando le libertà artistiche. Il tutto per non «incorrere in insurrezioni sociali e lacerazioni violente ad opera delle forze politiche filo-sovietiche». La spiaggia di Lattuada, subisce il taglio della scena in cui un sindaco comunista passa l’Unità ad un prete all’interno di un treno. Così come vengono tagliate le scene in cui si notano dei costumi da bagno troppo succinti.
Tuttavia Andreotti si impegnò anche nel finanziamento delle opere italiane in un mercato che subiva l’invasione delle pellicole americane. Più severo nella censura fu Oscar Luigi Scalfaro, poi presidente della Repubblica, e suo successore come sottosegretario allo Spettacolo a metà degli anni Cinquanta.
Le presunte offese al buon costume investono le commedie dell’epoca, tra cui la commedia Le avventure di Giacomo Casanova di Steno. Emblema di quel periodo è Totò e Carolina di Monicelli che arriva in parlamento (leggi anche Da Totò a Zalone, le maschere nella commedia dell’arte settima).
La commissione censoria accusa il regista di «oltraggio al pudore, alla morale, alla religione e alle forze armate», come spiega il sito www.italiataglia.it. Il film subisce la perdita di 31 scene e di oltre 200 metri di pellicola che modificano la valenza dell’opera.
Ultimo tango e la censura
A cavallo degli anni Sessanta e Settanta ci fu un vero e proprio exploit con decine di pellicole bloccate all’uscita nelle sale. Alcune di esse ebbero delle vicende giudiziarie che hanno segnato, inesorabilmente, quella macchiettistica rappresentazione dell’Italia repubblicana: cattolica, anticomunista e retrograda.
Uscito nel 1972, Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci segna un’epoca. La storia erotica tra un americano di mezza età, interpretato da Marlon Brando, e una ventenne francese impersonata da Maria Scheider viene messa al bando dopo appena cinque giorni di proiezione e sequestrato con l’accusa di spettacolo osceno.
La faccenda finì in tribunale, a Bologna, mentre il film cominciava ad avere successo nel resto del mondo seppur con alcuni tagli censori. Dopo l’assoluzione in primo grado di offesa alla morale pubblica arrivò la condanna in Appello e poi dalla Cassazione. Quest’ultima, nel 1976, ordinò la distruzione delle copie positive del film e il negativo. Si salvarono solo tre copie che furono consegnate alla cineteca nazionale. Per il produttore Alberto Grimaldi, il regista e Brando arrivò la condanna a due mesi di prigione con la condizionale e la sospensione della pena. Ma il film tornò in sala solo nel 1987, 15 anni dopo l’ultima volta.
Lo scandalo Pasolini
Uno degli autori che subì un maggior numero di denunce censorie fu Pier Paolo Pasolini. Fin dai tempi di Mamma Roma e La ricotta, siamo nei primi Sessanta, i film dell’intellettuale friulano suscitano scalpore per i contenuti sessualmente espliciti. Il suo Decameron, uscito nel 1971 e vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, viene proibito ai minori di 18 anni. Tuttavia non subisce la persecuzione censoria per «meriti artistici in quanto si ispira realmente all’opera del Boccaccio», così almeno scrive il giudice istruttore Cordella. Sorte contraria la ebbe l’ultimo film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, nel 1975. Bocciato, sulle prime, dalla commissione riuscì poi a ottenere il visto censura, a pochi giorni dalla morte di Pasolini (leggi anche L’ultimo incontro pubblico di Pasolini). Il film, riprendendo l’opera del marchese de Sade, era una spietata critica a ogni forma di potere, tra cui quello fascista. Le scene incriminate, oltre a quelle a sfondo esplicitamente sessuale, furono quelle incentrate sulle torture sadomasochistiche fino ad arrivare a quelle di coprofagia.
I giudici si espressero con parere contrario alla proiezione pubblica in quanto «il film, nella sua tragicità, porta sullo schermo delle immagini così aberranti e ripugnanti di perversioni sessuali che offendono sicuramente il buon costume». Dopo le prime proiezioni avvenne il sequestro della pellicola da parte dalla magistratura con la condanna a due mesi di reclusione per oscenità per il produttore Grimaldi. Il film, dopo una seconda ridistribuzione nel 1977, con conseguenti assalti durante le proiezioni da parte di neofascisti, per via della critica al regime di Salò e per le scene scabrose, non rivide le sale fino al 1985.
Totò che visse due volte
Non si tratta del grande comico napoletano ma di uno degli ultimi film che subì un processo per censura in Italia. Relativamente recente, del 1998, la pellicola ebbe fin da subito ebbe lo stop da parte della commissione di revisione cinematografica prima di uscire in sala. Le accuse erano di vilipendio alla religione e tentata truffa ai danni dello Stato per una richiesta di sovvenzionamento maggiore rispetto ai costi di produzione. Sui giornali dell’epoca si aprì un dibattito sul sovvenzionamento ad alcune opere cinematografiche.
Il tema da parodia religiosa dei tre episodi si intrecciava a quello dell’omosessualità con un angelo che veniva sodomizzato e perdeva le ali nell’ultimo episodio (leggi anche Da Pasolini a De André, la Passione di Cristo per credenti e atei).
Proprio dall’ala cattolica della critica italiana i due registi vennero messi alla gogna, nonostante una presentazione al festival di Berlino, ed etichettati come bestemmiatori. La destra italiana di Alleanza nazionale insieme a gruppi cattolici intransigenti organizzò delle proteste davanti alle sale che avrebbero proiettato il film. I registi vennero scagionati dalle accuse solo tre anni dopo.
Tagli da Oscar: Nuovo cinema paradiso
Nessuna censura in Nuovo cinema paradiso. Ma i tagli dei baci dalle pellicole, operati del sacerdote che ha in gestione il cinema di un piccolo paese della provincia siciliana, sono il leitmotiv dell’opera. Per il film Giuseppe Tornatore nel 1990 riceve il premio Oscar e il Golden Globe come miglior film straniero. I numerosi tagli delle scene, ritenute scabrose dal parroco, formano un collage di baci mancati che erano stati raccolti dal suo maestro di macchina, interpretato da Philippe Noiret. E che il protagonista osserva in religioso silenzio, in un cinema vuoto, con in sottofondo l’indimenticabile colonna sonora firmata da Ennio Morricone.
In attesa che riaprano cinema e teatri, l’Italia della cultura ha oggi una vana speranza di modernità e autonomia.