Roberto Baggio è stato il calciatore più amato dal Belpaese. Probabilmente il più forte giocatore italiano di tutto il dopoguerra. Nato nel 1967 a Caldogno (Vicenza), è stato soprannominato Raffaello. Un paragone, caro a Gianni Agnelli, perfetto per raccontare il più grande artista dell’era d’oro del campionato italiano.
Un uomo del Rinascimento
È stato effettivamente il più elegante interprete del Rinascimento del calcio nostrano. Un’era (leggi anche l’articolo sulle Sette Sorelle) a cui guardiamo con romantico rimpianto consumata tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Duemila, grazie a mecenati che a tutte le latitudini della penisola foraggiavano uomini in grado di scolpire pali, traverse, reti, pennellare cucchiai, tunnel e dribbling nello stadio, Duomo moderno. Una lunga epoca di egemonia italiana nel football, dopo le antiche glorie degli anni Trenta (due mondiali e un’Olimpiade vinti), i dolorosi anni Quaranta e Cinquanta, la ricostruzione in Dolce stil novo di Riva, Rivera e Mazzola.
Un trentennio iniziato negli anni Ottanta, conclusosi con il manierismo di inizio anni Dieci. Quando il calcio nostrano si trova a rincorrere con risultati barocchi le novità nate in Spagna. Quando si riducono le corti in grado di ospitare squadre competitive.
Eroe italiano
Oggi Netflix pubblica sulla sua piattaforma la storia di un eroe profondamente italiano. Sembrerebbe un controsenso che il giocatore più forte e amato sia stato ritratto spesso nella posa sacra del rimpianto, nel momento della più cocente sconfitta: dopo il rigore sbagliato nel 1994, che consegna un mondiale all’ingordo Brasile. Eppure non è per scortesia. È un richiamo all’iconografia religiosa e laica cara alla nostra penisola. Baggio piace così tanto ancora oggi proprio perché è stato il più grande, eppure ha perso. Eroe neorealista, non invincibile duro di una pellicola hollywoodiana, che ha insegnato proprio negli Usa quanto sia falso il mito degli uomini imbattibili. Messia sul campo che ha conosciuto gloria, Golgota e infine Resurrezione.
Noi lo celebriamo però con 5 sue opere d’arte. Con i momenti di bellezza e di gloria che ha regalato al mondo. Perché l’eroe italiano sarà pure stato sconfitto in una calda estate di metà anni Novanta dall’afa e dai verdeoro, ma ha comunque conquistato una parete immortale nel Louvre della storia del calcio.
1, la stella di una notte magica, 19 giugno 1990
In queste notti orribili, fatte di paure, Covid e coprifuoco, si sente forte la nostalgia per le notti magiche del 1990. In quell’estate luminosa, la Penisola ospita il mondo intero: è Italia ’90, è l’ultimo mondiale organizzato nel Belpaese.
Gli azzurri non vincono il torneo, ma brillano. I bambini sognano con i goal di Totò Schillaci e le parate di Walter Zenga. Fino alla semifinale contro l’Argentina di Diego Armando Maradona, con quel goal di Claudio Caniggia che ci trascina ai rigori, maledizione degli anni Novanta, costata per tre mondiali di fila lacrime che diventano cicatrici.
È il 19 giugno il giorno in cui per qualche secondo sul prato verde dell’Olimpico di Roma il Codino d’oro disegna forse il goal più bello di tutta la sua carriera. È la terza partita del girone e la nostra avversaria è la Cecoslovacchia. Un ricordo che sa davvero di storia, quello sarà l’ultimo mondiale giocato nella stessa squadra da cechi e slovacchi. Baggio dopo lo scambio con Giannini va all’affondo, corre verso l’area avversaria. Durante la cavalcata supera con eleganza un tackel avversario e arrivato in area ubriaca difesa e portiere della squadra mitteleuropea. È il 2 a 0, l’Italia è prima nel girone. È notte, eppure il cielo romano non è mai sembrato così azzurro.
2, il Pallone d’oro, 17 aprile 1993
Nel 1993 Baggio conquista il Pallone d’oro. Fondamentale è il suo ruolo di trascinatore della Juve nella coppa Uefa di quell’anno. Il goal che però abbiamo scelto per raccontare l’anno in cui al campione italiano viene tributato il massimo riconoscimento calcistico individuale, è stato segnato in campionato contro l’imbattibile Milan di Capello.
È il 17 aprile. Sulla panchina dei gobbi siede Giovanni Trapattoni, il più vincente allenatore della vecchia signora. I rossoneri volano verso lo scudetto. Negli ultimi anni tra trofei europei e soddisfazioni italiane, sono diventati la squadra da battere. Hanno cambiato le regole del calcio e il loro presidente Silvio Berlusconi è uno degli uomini più potenti d’Italia.
Alla Juve da qualche anno manca la soddisfazione di cucire sulla propria pelle zebrata lo scudetto. La partita contro il Milan di quel giorno d’aprile di inizio anni Novanta e quel 3 a 1, sono una prova di maturità che anticipa le tante soddisfazioni che stanno per arrivare a Torino.
Baggio è in grado di trasformare in oro ogni pallone che gioca. È uno stratega del campo da calcio, che mette in ogni movimento un’astuzia e un’intelligenza inimitabili.
In quel momento della partita la Juve è sul 2 a 1. Il Milan è schiacciato nella metà campo avversaria in cerca del pareggio. Il fantasista riceve la sfera sulla linea del centrocampo e lascia sfilare il pallone, ingannando con un movimento del corpo Alessandro Costacurta. Quindi corre in contropiede verso l’area avversaria, dribblando il portiere. A poco vale il tentativo di recupero della difesa rossonera, la palla è destinata a varcare la porta.
3, il trascinatore, 13 luglio 1994
Quattro anni dopo la rete più bella, arriva, sempre in azzurro, la più importante. È la perla che regala all’Italia la quinta finale mondiale della sua storia e la porta al big match con il Brasile, poi purtroppo perso. Roberto Baggio nel 1994 è il trascinatore di una nazionale che inizia il suo cammino nel torneo sonnecchiando, ma che il talento veneto trasforma in una delle più vincenti di sempre. Nel trailer del film Netflix sul Divin Codino, l’attore che interpreta Arrigo Sacchi (c.t. azzurro di quel torneo) dice al giocatore: “Tu per noi sei come Maradona per l’Argentina”. È davvero così. Baggio non ci ha fatto perdere il mondiale sbagliando l’ultimo rigore contro il Brasile, Baggio ci ha fatto vincere il secondo posto, portandoci quasi da solo in finale.
Dopo aver fatto già la differenza nelle partite precedenti, firma una doppietta nella semifinale contro la Bulgaria il 13 luglio. La squadra avversaria dell’Italia non è da sottovalutare, ha già beffato i tedeschi, privando il mondiale ospitato dagli americani del derby europeo Italia-Germania. Baggio al ventesimo minuto è ben marcato, ma, quando riceve palla poco fuori l’area di rigore avversaria, si gira bene, liberandosi senza troppi problemi dell’avversario. Quindi supera l’intervento in scivolata di un altro difensore e trova il giro giusto per battere il portiere. Quello che colpisce è l’estrema facilità con cui un’azione tanto complessa, degna di un giocatore di grandi doti tecniche, si compone sullo schermo televisivo. Oggi quei gesti, quelle traiettorie sembrano evocare le mosse surreali di un calciatore effimero in un gioco virtuale.
4, la classe di un addio, 23 maggio del 2000
Gli anni in nerazzuro del codino più amato sono forse i più difficili. Complesso il rapporto con l’allenatore Marcello Lippi, che lo mette ai margini del progetto. Come si fa a tenere fuori dal campo il più grande talento italiano di quel periodo? Baggio sembra perseguitato dalle sventure tipiche dei grandi geni italiani incompresi. Come Dante, Caravaggio, Galileo è costretto a pellegrinaggi di città in città, ovunque idolatrato e dappertutto trattato senza rispetto. Maledizione del talento.
Eppure non è un ribelle che risponde con veemenza e disinteresse per la maglia alle umiliazioni subite. Ne abbiamo visti tanti così negli anni Duemila. Baggio invece è fedele al pubblico e alla missione, tanto da salvare la stagione dell’Inter del 2000. Lo fa portando in Champions la squadra di Milano, con una doppietta contro il Parma nella partita spareggio tra i due team arrivati quarti a fine campionato.
Il primo goal è una sua specialità con cui beffa il portiere forse più grande di sempre, Gianluigi Buffon. La punizione disegna una perfetta traiettoria che lascia nell’aria la sensazione di imprevedibilità e all’estremo difensore la consolazione dell’imprendibilità. Baggio è il padre di una generazione di tiratori scelti italiani, di cecchini del calcio piazzato in grado di mettere gioia dietro una barriera invalicabile. Maestro imitato da Del Piero, Pirlo, Totti. L’Inter va in Europa, Baggio invece non sa quale sarà il suo destino nel giorno in cui ha dimostrato definitivamente quanto possa essere irrinunciabile il suo talento.
5, Pirlo-Baggio vs Juve, 1 aprile 2001
È il primo aprile del 2001. Il Brescia affronta la Juve di Alessandro Del Piero e Zinedine Zidane. Gianluca Zambrotta ha firmato nel primo tempo il goal del momentaneo vantaggio bianconero. C’è tanta qualità in quella vecchia signora, ma anche il Brescia ha due fuoriclasse unici. Un lancio lungo due generazioni sta per trafiggere i sogni scudetto della portentosa macchina da guerra di casa Agnelli.
Da una parte del campo il giovane padawan, destinato a diventare campione del mondo, dall’altra il maestro ormai anziano, pronto a trasformare l’intuizione dell’allievo in uno dei goal più belli della serie A. Andrea Pirlo lancia la palla lunga verso lo scatto, in posizione regolare, di Roberto Baggio. Il Divin Codino, addomestica il pallone e nel farlo dribbla il portiere per poi infilare a porta vuota. Tutto con un tocco leggero, anzi leggerissimo. Come un pittore a cui bastano pochi segni per descrivere un paesaggio.
La Juve vede sul suo campo il fantasma del Natale passato e del Natale futuro punirla in pochi secondi. Baggio e Pirlo in epoche diverse vestiranno la maglia con più stelle del campionato, portandola a vittorie e estasi agonistiche. In quel primo giorno d’aprile però, come da tradizione, i superbi subiscono un brutto scherzo. Il passato e il futuro del calcio italiano, dei dolori e delle gioie della nazionale azzurra, scrivono la più memorabile delle azioni indossate dalla leonessa bresciana.
Noi rimaniamo estasiati dalla “grande bellezza” che fu. In attesa del calcio che verrà e degli artisti che sapranno rendere gloria agli insaziabili Dei del pallone.
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