Ricorre oggi l’assassinio e il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, uno dei leader della Democrazia Cristiana, nonché uno dei protagonisti del Compromesso Storico, che avrebbe portato alla creazione di un governo a larghe intese, sostenuto dal Partito Comunista.
La vicenda del suo rapimento e del suo assassinio è una delle più controverse della storia repubblicana italiana. Sono molte le cose ancora incerte, ma quello che si può affermare è che, la mattina del 16 marzo 1978, un commando delle Brigate Rosse tese un agguato a Moro e alla sua scorta, vicino alla sua abitazione, all’incrocio fra via Fani e via Stresa, in un quartiere residenziale di Roma nord.
Quella mattina era in programma il voto di fiducia per il quarto Governo Andreotti, a cui il Pci avrebbe dato l’appoggio esterno. Si trattava del risultato di un graduale avvicinamento per affrontare la crisi degli Anni di Piombo. Ma col cenno di un mazzo di fiori da parte di Rita Algranati, Mario Moretti condusse la sua auto davanti a quella della scorta, mentre Alvaro Lojacono si posizionò chiudi fila, dietro a quella che trasportava Moro. Bastò una frenata, a cui ancora non è chiaro se sia seguito o meno un tamponamento.
I brigatisti bloccarono così l’auto in cui viaggiava Moro e l’auto della scorta, all’incrocio fra via Fani e via Stresa. Entrarono in azione altri quattro terroristi, vestiti con le divise dell’aviazione civile, e uccisero in pochi secondi i cinque uomini della scorta: Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino e Giulia Rivera.
Dopo la fuga in auto, i brigatisti portarono Moro in uno dei loro nascondigli. Dai processi, è risultato che fosse un appartamento di via Montalcini 8, nel quartiere Portuense, il luogo di prigionia. Eppure, il nome più celebre è quello di via Gradoli, dove al civico 96 si trovava un nascondiglio dei brigatisti. La sua fama deriva da una testimonianza di Romano Prodi, che, in una domenica di pioggia a Bologna, si trovò con alcuni amici per una seduta spiritica. Invocarono lo spirito di Giorgio La Pira e gli chiesero dove fosse segregato Moro. La monetina avrebbe scritto sulla tavola “Gradoli”. Ovviamente, è molto più probabile che questa storia fosse una copertura e che il Professore avesse sentito qualche voce di corridoio fra i membri di Autonomia Operaia, molto forti a Bologna e vicini alle Brigate Rosse. Comunque, le forze dell’ordine si recarono a Gradoli, ma non nella via romana, ma nel comune omonimo in provincia di Viterbo.
In via Gradoli viveva Mario Moretti, uno degli esponenti principali, insieme a Barbara Balzerani, che ogni giorno si recava in via Montalcini per interrogare Moro. La mattina del 18 aprile, la donna che viveva al piano inferiore dei brigatisti fu svegliata da un’infiltrazione d’acqua e chiamò l’amministratore di condominio che, non riuscendo ad entrare, chiese aiuto ai vigili del fuoco. Fu così che il nascondiglio fu scoperto, con dentro solo munizioni, armi e volantini. Non è ancora chiaro se l’infiltrazione fosse casuale o fosse stata provocata volontariamente da qualcuno, come fosse un segnale.
Nelle settimane successive, continuarono le trattative, nelle quali i terroristi intimavano alla moglie di Moro di appellarsi a Benigno Zaccagnini, allora segretario Dc. Alla fine, arrivò la sentenza di morte.
La mattina del 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di reclusione, Mario Moretti uccise Moro. I brigatisti comunicarono con una telefonata sia la sentenza, sia il luogo dove la famiglia avrebbe potuto ritrovare il cadavere.
Il corpo fu lasciato in una Renault 4 rossa in mezzo a via Caetani, una stradina del centro di Roma, proprio a metà strada fra la sede del partito Comunista e quella della Democrazia Cristiana, come fosse un monito per coloro che cercavano un dialogo fra i partiti rivali.