Inter campione d’Italia, a undici anni di distanza dall’ultima affermazione neroazzurra. Dieci anni dopo l’ultima volta, lo scudetto torna a Milano (nel 2011 a vincere è stato il Milan). La vittoria, come non sempre capita, assume contorni storici affascinanti. Insieme all’affermazione nella parte alta della classifica dell’Atalanta bergamasca, può essere un segno importante per una regione, la Lombardia, che ha sofferto tanto nell’ultimo anno.
Non bisogna abbandonarsi alla retorica. Il dolore di Milano e della regione governata da Attilio Fontana non si può cancellare con una vittoria sul campo a undici. Le imprese sportive però possono rappresentare un trampolino di lancio per ricominciare, per costruire una nuova narrazione e un nuovo futuro. Non cancellano il passato, ma sono in grado di ispirare speranza alle generazioni a cui tocca ricostruire dalle macerie.
Milano ha sofferto tanto. La Lombardia è stata l’epicentro di un dolore che ha cambiato il mondo. Ecco che la sfida olimpica del 2026 (le Olimpiadi invernali di Cortina e Milano) e il ritorno alla vittoria nello sport più amato dalla gente non cancellano, non leniscono le ferite, ma possono essere il seme del tempo che verrà. Di quel che non è stato scritto.
È già successo più volte e in tanti sport. Ad ogni latitudine del pianeta. In questi casi l’impresa agonistica non ha modificato il difficile passato, ma ha cambiato il futuro. Ripercorriamo alcune mitiche storie del Novecento.
Italia, 1948, la ricostruzione e la guerra civile sfiorata
È il 25 luglio 1948. La Guerra fredda sta raggiungendo temperature bollenti in Italia. La penisola è divisa al suo interno da un muro invisibile, da una parte la Dc e le forze conservatrici legate alla Nato, dall’altra i comunisti che guardano alla Russia.
Il leader del PCI Palmiro Togliatti è stato vittima di un attentato dieci giorni prima e il paese è sull’orlo della guerra civile. Manifestazioni violente scuotono la penisola che non ha mai dimenticato gli anni bui del fascismo e della Seconda guerra mondiale. A raffreddare gli animi sarà lo statista comunista che, sopravvissuto all’azione terrorista, inviterà alla calma.
Secondo molti gioca un ruolo in questa storia anche la vittoria al Tour de France dell’amato ciclista toscano Gino Bartali. Un grande protagonista del Novecento italiano, non solo sportivo. Il suo trionfo aiuta gli italiani a raffreddare gli animi in ore dolorose e complicate. Pur non rappresentando la vera ragione che sventa il conflitto armato, la trionfale pedalata di Bartali aiuta sicuramente gli italiani a distrarsi dall’odio, a riappacificarsi, a trovare una ragione di gioia collettiva.
Una vittoria fondamentale negli anni della ricostruzione. L’Italia attraverso il cinema (leggi Cinema e resistenza) e le imprese sportive cerca di fornire una nuova immagine di sé, dopo gli anni del fascismo e della vergogna. Una tappa che precede di sei anni la storica conquista del K2 del 1954, quando gli italiani raggiungeranno la vetta della montagna più difficile da scalare del mondo. Un’impresa importantissima, paragonabile, con le dovute proporzioni, a quello che per gli Usa ha rappresentato la missione Apollo del 1969.
Germania, 1954, il Miracolo di Berna
La Germania del Dopoguerra è un paese che deve ritrovare la sua identità dopo gli orrori del nazismo. Una nazione guardata con sospetto, un’osservata speciale, divisa in due stati sotto il controllo delle due superpotenze vincitrici del secondo conflitto mondiale.
La Germania Ovest in particolare però conosce, all’interno della nuova identità di paese fondatore delle comunità europee, un nuovo percorso e un nuovo sviluppo. È parte di questa ricostruzione e del successivo boom economico un episodio calcistico che rappresenta il primo vero momento di gioia, rinascita e orgoglio per un popolo alla ricerca di una nuova centralità.
La finale del mondiale di calcio del 1954 a Berna è per i tedeschi un’impresa imprevedibile. Hanno raggiunto un’agognata finale, ma devono vedersela con un’affamata potenza del calcio europeo di quegli anni: l’Ungheria. Nella fase a gironi la temibile corazzata dell’est aveva già battuto i tedeschi 8 a 3. Il pronostico sembra scontato. Quel 4 luglio del 1954 però, tutto è destinato a cambiare. Dopo i primi minuti complicati in cui l’Ungheria sembra aver preso in mano il destino della finale, la Germania vince 3 a 2. Un risultato impensabile che fa parlare di miracolo. Di questo episodio indimenticabile della storia del calcio si occuperà anche il cinema con un film di Sönke Wortmann del 2003.
Certo gli storici del pallone poi malizieranno con vari sospetti su quella miracolosa prestazione. Rimarrà però la più importante partita di tutta la storia tedesca, da cui nasce la potenza calcistica che tutti conosciamo e non solo. Sorge quel giorno una nuova immagine su cui basare la narrazione di un paese moderno, pacifico, ma vincente.
Usa, 1980, il Miracolo sul ghiaccio
I “miracoli” sportivi non sono solo europei. Un celebre caso riguarda gli Usa che nel 1980 compiono la loro impresa sportiva forse più celebrata nell’hockey su ghiaccio. Durante le Olimpiadi invernali di quell’anno a Lake Placid, una squadra sulla carta senza speranze batte i sovietici favoriti dal pronostico, in un incontro degno di una pellicola di Hollywood sulla Guerra fredda.
Per gli statunitensi sarà l’inizio degli anni Ottanta, cioè di quel decennio di resurrezione dell’orgoglio di un Paese che era uscito con le ossa rotte dagli anni Settanta. La sconfitta in Vietnam, lo scandalo Watergate che mina la fiducia dei cittadini nella politica, la crisi diplomatica degli ostaggi in Iran, nonché l’amaro ricordo delle violenze degli anni Sessanta hanno intaccato le convinzioni di una nazione che credeva sé stessa invincibile. Perfino il cinema smette di celebrare i miti western e immortala grandi sconfitti come Rocky Balboa, un pugile che (nel primo film della saga) lotta con onore, ma viene sconfitto.
Quella vittoria sul ghiaccio è l’inizio di una nuova narrazione. Precede l’ascesa di Ronald Reagan e la sconfitta dei russi nella Guerra fredda.
Italia, 1982, la fine degli anni di piombo
L’Italia, fino al 1982, i Mondiali di calcio li aveva vinti solo nel periodo fascista. Nell’era repubblicana aveva trionfato in Europa nel 1968, oltre che nelle competizioni per club con le sue grandi. Mancava però quell’affermazione nella coppa più amata, sfiorata solo nel 1970, quando l’Italia aveva battuto i tedeschi nella mitica partita del 4 a 3, per poi naufragare contro il Brasile di Pelé.
Serviva una grande gioia nello sport più popolare che portasse in piazza i cittadini e risvegliasse il loro orgoglio (leggi anche L’Italia unita compie 160 anni, raccontare un Paese diverso è possibile?). Serviva al Paese e al mondo del calcio. L’Italia non si è ancora scrollata di dosso i dolorosi anni Settanta, la violenza politica. I primi anni Ottanta sono un’era di passaggio, una fase di riflusso, la gente è disillusa da una stagione che non ha portato un vero cambiamento. Serve un episodio che ridia speranza e accenda il motore della rinascita. Serve anche al mondo del calcio da poco interessato dallo scandalo del “Totonero”, una delle peggiori pagine per la storia dello sport nostrano.
Dopo un inizio stentato l’Italia vince, battendo le squadre più forti in quel periodo storico: l’Argentina, il Brasile e la Germania. Paolo Rossi con le sue sei reti e in particolare la tripletta al Brasile diventa il nuovo eroe degli italiani. Marco Tardelli urla dopo il secondo goal inflitto ai tedeschi nella finale e diventa con quell’esultanza indimenticabile un’icona del football mondiale. Il telecronista a fine partita ripete tre volte: “Campioni del mondo”. Il presidente partigiano Sandro Pertini festeggia.
Se gli anni ’80 saranno ricordati un po’ da tutti come un’epoca felice, malgrado gli scandali, la corruzione e la violenza mafiosa è anche per quel trionfo azzurro. È il successo di un’Italia diversa da quella che aveva vinto due competizioni negli anni Trenta. È una nazione democratica, lavoratrice, che ama la vita e la leggerezza, la concretezza e la bellezza. Un paese ben rappresentato da quel suo capo di stato, così allegro dopo la vittoria per 3 a 1 contro i tedeschi, così serio e affidabile nel compito affidatogli dalla Costituzione.
Argentina, 1986, la mano de Dios
Quattro anni dopo anche l’Argentina ha bisogno di un sogno da cui rinascere. Come l’Italia anche il popolo sudamericano lega la sua ultima vittoria calcistica in un Mondiale a un regime fascista, da poco crollato.
Il paese non ha bisogno di dimenticare, anzi ha bisogno di ricordare, di capire, di sapere. La dittatura è stata silenziosa carnefice dei cittadini argentini e ora si deve gridare giustizia per i desaparecidos, gli scomparsi, coloro che sono stati torturati e assassinati da un regime che voleva letteralmente cancellare la libertà di pensiero e di diversità (leggi anche L’Eternauta, un capolavoro a fumetti).
C’è bisogno al tempo stesso di un nuovo inizio e di un nuovo eroe su cui ricostruire la propria identità. C’è la necessità di un trionfo internazionale da cui ricominciare, importante per un paese che ha appena subito una pesante sconfitta militare da parte dell’Inghilterra alle Falkland.
Quell’eroe sarà Diego Armando Maradona (leggi anche; Argentina, verso il primo Mondiale ‘senza’ Diego). Un volto che genera una naturale simpatia. Un piede in grado di miracoli e magie. È il Mondiale di calcio del 1986 e Diego guida gli argentini alla seconda vittoria mondiale, qualcuno dirà da solo. Di sicuro è il condottiero di un paese che vuole cambiare, che vuole ritrovare gioia e futuro.
Punisce gli inglesi nei quarti di finale con un 2 a 1 storico. Lo fa prima colpendo gli avversari con una manata (la famosa mano de Dios), un gesto che rivendica malgrado fosse scorretto. Poi segna il goal più bello della storia del calcio, una lunga cavalcata che lo porta a percorrere da solo quasi tutto il campo da gioco e gonfiare la rete.
L’Argentina poi vincerà ancora, battendo anche la Germania in finale. Il Paese andrà così incontro ad un periodo più felice, all’illusione della ripresa economica degli anni ’90, prima della grave crisi di inizio nuovo millennio.
Maradona però non salverà solo l’orgoglio argentino, ma anche quello di una delle città più belle d’Italia. Napoli sarà la sua seconda patria e questo scugnizzo latinoamericano guiderà i partenopei a vincere due scudetti. Queste vittorie fanno parte di una stagione importante per la città e la Campania, che mentre soffre le guerre tra clan e la difficile fase del post-terremoto, sogna al San Paolo con la sua squadra, nei cinema con Troisi e De Crescenzo, alla radio con Pino Daniele.
Sudafrica 1995: una squadra, una nazione
Il Sudafrica per anni è stato isolato nello sport a causa dell’apartheid, cioè della sua inaccettabile politica razzista nei confronti della popolazione nera. Nel 1995, dopo la fine di questa infamia, i Sudafricani vengono chiamati ad organizzare i mondiali di rugby. Nelson Mandela vuole una grande impresa, che possa aiutare quel processo di unificazione del Paese e perdono da lui voluto. Nasce l’espressione “one team, one country” (una squadra, un Paese) e l’altrettanto fortunosa “nazione arcobaleno”. La vittoria della Coppa del Mondo arriva e riempie d’orgoglio tutte le etnie. Un evento storico talmente importante che sarà poi ricordato da un film di Clint Eastwood: “Invictus”.
Due casi in cui è la storia a fare la partita
Di solito sono le partite a fare la storia. Ci sono due casi in cui è successo il contrario. Cioè una grande vittoria è stata figlia anche di eventi storici. Il primo caso è la vittoria dei tedeschi nel Mondiale di calcio italiano del 1990, pochi mesi dopo il crollo del muro di Berlino. La Germania non è certo la squadra favorita e vince battendo inglesi e argentini. Il ritrovato orgoglio nazionale per la riunificazione (ormai prossima) può aver aiutato i tedeschi a vincere laddove avevano fallito nelle due edizioni precedenti?
Se i tedeschi sono un po’, per il calcio mondiale, quel che la Juventus è per il campionato, una squadra che vince spesso e anche se non vince lotta fino alla fine per il titolo, il caso della Grecia del 2004 è ancora più evidente. I greci vincono l’Europeo di calcio nell’anno delle olimpiadi ateniesi, cioè nell’anno in cui lo sport ritorna un po’ a casa sua, tra le rovine dell’antica civiltà in cui era nato. Qui non ci sono dubbi, l’orgoglio sportivo greco è stato risvegliato dal clima pre-olimpico, portando gli ellenici a vincere il torneo e a battere il Portogallo padrone di casa.
Quelle vittorie mancate, che avrebbero potuto cambiare la storia
Una vittoria sportiva può davvero cambiare la storia? Non lo sappiamo per certo. Per continuare però questo gioco elenchiamo anche i casi in cui una mancata vittoria o qualificazione ha avuto l’effetto di aiutare il declino di un Paese.
Il caso più eclatante è quello dell’Urss nell’Europeo di calcio del 1988. Alla fine degli anni Ottanta l’Unione sovietica è una superpotenza ormai economicamente e politicamente in crisi, che ha appena affrontato e continua a pagare i danni del disastro di Chernobyl. Il goal magico al volo di Van Basten nella finale, che consegna la vittoria alla spesso sfortunata Olanda, di certo non ha aiutato i russi a tenere su il Muro di Berlino e l’orgoglio di un gigante dai piedi di argilla.
Non manca un caso italiano. Nel 1992 l’Italia non si qualifica per gli Europei. L’estate più calda della nostra storia recente, in cui un intero sistema politico naufraga sotto i colpi di inchieste, crisi finanziarie e fatti sanguinosi, è anche un’estate che offre poche distrazioni al popolo del Belpaese. Tranne coloro che avevano scommesso su una improbabile vittoria danese, il resto degli italiani si concentra sulle vicende di malaffare che emergono dallo scandalo Tangentopoli. E di sicuro la mancata qualificazione degli Azzurri al torneo non aiuta a lenire il malcontento che metterà fine alla “prima Repubblica”.
Sempre per il pallone non si può non citare la sconfitta brasiliana in casa per 7 a 1 contro la Germania nel Mondiale del 2014. Il torneo da speranza di rinascita si trasforma in un incubo sociale, in uno spreco di denaro e infine in una umiliazione per una semifinale che fa crollare definitivamente il mito del grande Brasile pentacampione. Uno dei tanti tasselli di una crisi ben più ampia in cui entra negli anni Dieci la nazione del Sud America. Un declino sociale, culturale, identitario che porterà alla vittoria del populismo di Jair Messias Bolsonaro.
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