Doppiaggio, censura e linguaggio inclusivo. Intervista a Fabrizio Mazzotta
Nel mese del Pride, il Ddl Zan e il linguaggio inclusivo sono stati un argomento caldo sui social e sui giornali. Anche le serie Tv e i cartoni animati stanno dando sempre più spazio alle diversità, non senza critiche. Per questo, Ventuno ha intervistato uno che di linguaggio e televisione ne ha fatto un mestiere: Fabrizio Mazzotta.
Classe 1963, Fabrizio Mazzotta ha doppiato innumerevoli cartoni animati e anime giapponesi, ma anche film e serie Tv. Ha diretto il doppiaggio di molti titoli storici, come Dragonball, Trigun, Evangelion, Ranma, ed è la voce di molti personaggi intramontabili. In primis, Krusty il Clown, dei Simpson, ma anche Eros in Pollon e il Mignolo di Mignolo col Prof. Lo abbiamo intervistato per saperne di più su di lui, sul suo mestiere e su come è cambiato negli ultimi tempi.
Da quanto lavori come doppiatore?
«Ho iniziato da piccolo, quando avevo 4 o 5 anni come attore in carne e ossa. Poi c’era l’esigenza di doppiarmi, così ho conosciuto l’ambiente del doppiaggio. Ho iniziato intorno ai 7 – 8 anni, per poi iniziare a fare personaggi più importanti quando ne avevo 12».
Perché c’era l’esigenza di doppiarti?
«Un tempo c’erano altre tecniche, si girava in presa diretta, ma c’erano i rumori del vento, quindi capitava che ci fosse l’esigenza di doppiare il girato in parte o del tutto».
Con le tecniche attuali non è più necessario?
«Si doppia ancora il girato, ma la maggior parte delle volte capita quando gli attori sono stranieri».
Quindi sei stato il tuo primo personaggio. Qual è stato invece il tuo primo cartone animato?
«Quando ero piccolo ovviamente avrei voluto doppiare i cartoni, ma inizialmente non me lo facevano fare, dicevano fosse troppo difficile. Iniziai relativamente tardi e il mio primo cartone fu i Flintstones. Devo tutto ad un direttore del doppiaggio che ora non c’è più, che si chiamava Rino Mencuccini. Lui doppiava tutti i cartoni di Hanna e Barbera. Devo molto a lui la mia crescita nel settore. Dopo un po’ gli chiesi: “Posso fare una vocetta strana per un cartone?”. Io avevo un timore reverenziale verso di lui, era un omone grosso, severo ma buono. Lui mi fece provare e la approvò. Da lì mi sciolsi e iniziai a provare le vocette, le caratterizzazioni. Si sparse la voce e mi chiamarono sempre più per doppiare i cartoni animati. Ne feci altri di Hanna e Barbera, e poi venne Goldrake, con Mizar».
La tua pronuncia ti è mai stata d’ostacolo o è stato invece qualcosa di caratteristico?
«Io ho iniziato da piccolo e un bambino di quattro anni con il rotacismo incute simpatia, fa tenerezza. Da adolescente ho pensato di toglierla per continuare a lavorare, però non mi ha mai portato ostacoli. Ho pensato di fare gli esercizi, andare dal logopedista. Ma ormai ho superato i cinquanta… così è andata! Ricordo una grandissima voce del doppiaggio, Lydia Siloneschi, diceva: “Che carina questa r, quanto mi piace!”. Anche Emilio Cigoli, voce di John Wayne, doppiatore vecchio stile, mi chiamava spesso e anche per lui non costituiva un problema. C’è da dire che io sono un caso raro. Quando insegno nelle scuole di doppiaggio consiglio sempre di correggere i difetti di pronuncia».
Come hai iniziato a insegnare nelle scuole?
«Tanti anni fa mi proposero di tenere uno stage di doppiaggio e mi trovai bene, poi fui ricontattato per insegnare. Sono diversi anni che insegno in queste scuole. Sono fisso alla Voice Art Dubbing. E’ un secondo lavoro oltre a quello del doppiaggio e alla direzione».
Quali sono i personaggi che ti sono rimasti più nel cuore?
«Ce ne sono stati diversi, negli anni. Sicuramente Danny Partridge, de La Famiglia Partridge, fu il mio primo protagonista. Poi ci sono i personaggi più celebri: Eros di Pollon, Krusty dei Simpson, i Puffi. Mi sono divertito molto a doppiarli e sono ancora ricordati dal pubblico».
Parliamo di Krusty, il tuo personaggio più longevo. Doppiare un clown con problemi d’alcolismo, di droga, che odia i bambini, un personaggio negativo, che effetto ti fa?
«E’ divertentissimo, tira fuori il mio lato cinico, a me piace l’umorismo nero. Sfrutta i bambini, beve, è senza scrupoli. Io vado al leggio e dopo 32 anni a doppiare I Simpson mi fanno ancora ridere, li trovo ancora efficaci».
Trovi efficace Krusty o i Simpson in generale?
«Trovo efficace Krusty perché ancora mi diverte. Poi mi piace il personaggio perché ti abitui al carattere, ai tormentoni e ti affezioni. Anche i Simpson mi divertono ancora. Forse non hanno più lo smalto di un tempo, ma perché non sono più una novità. Poi in questi anni sono nati tanti prodotti simili, quindi la forza dirompente di 32 anni fa si è smorzata. Però li trovo ancora piacevoli. Inoltre, la Fox li ha rinnovati fino alla 34esima stagione, quindi per altri due anni farò ancora Krusty».
Le primissime stagioni dei Simpson, che venivano trasmesse su Canale 5, alla sera, avevano un linguaggio diverso. Siccome ti occupi di adattamento, cosa ne pensi di questo cambiamento?
«Io non mi sono mai occupato dell’adattamento dei Simpson. Ho notato anche io un annacquamento del linguaggio, ma alla base già dall’America era stato reso più popolare. Prima I Simpson erano un prodotto di nicchia, era nato diversamente, non per i bambini. Ora invece è alla portata di tutti, è più omologato alla massa. Poi a me dà sempre fastidio qualunque tipo di censura e di rimaneggiamento dei dialoghi».
Ti sei mai trovato a dover affrontare delle censure? Chi è che dice allo studio di doppiaggio che il dialogo va cambiato?
«È il funzionario tv, che può essere della Rai, Mediaset, Cartoon Network, che legge i copioni prima del doppiaggio e dice cosa cambiare e togliere. Mi è successo varie volte. Una volta stavo dirigendo il doppiaggio di un cartone, L’invincibile Dendoh, dove uno dei personaggi si chiamava Ginga, ma la madre lo chiamava Gin. Quello non si poteva dire perché sarebbe stata istigazione a bere. Non si poteva dire “cavaliere nero” perché all’epoca c’era Berlusconi e secondo loro era equivocabile. Una follia. Un’altra volta, stavo doppiando una telenovela spagnola. I personaggi erano adolescenti e parlavano spesso di sesso. Non si poteva dire “mestruazioni”, “omosessuale”, “piattole”. C’era una scena dove uno dei personaggi si grattava il pube perché aveva le piattole. Nel dialogo è diventato un mal di pancia. La serie era rivolta agli adolescenti, il linguaggio non era crudo, era reale. Non volgare. La serie Elite, di Netflix, è molto più spinta».
Con le nuove piattaforme ci sono censure o sono più liberi?
«Sono liberissime. Netflix e Amazon non mi hanno mai fatto censure».
Il dibattito pubblico si scontra spesso sull’inclusività delle loro serie, che viene spessa vista come forzata nel voler mettere minoranze etniche o personaggi gay. Cosa ne pensi?
«È una scemenza perché non sono forzatamente inclusivi, sono normalmente inclusivi. Categorie di persone come extracomunitari, disabili, omosessuali, coesistono nel nostro mondo e vengono inclusi nelle storie, perché è anche giusto che ci sia la normalità. Negli anni ‘50 i personaggi femminili erano o casalinghe o donne che venivano salvate dall’eroe. Ora il mondo si evolve, abbiamo una mentalità differente e non sono più relegate a fare le vecchine da salvare, sono agenti segreti, lavoratrici, poliziotte. Abbiamo ovviamente personaggi di colore, che una volta non esistevano. Negli anni’70 hanno iniziato a comparire nei polizieschi e ad avere ruoli più centrali. Allo stesso modo, anche adesso abbiamo categorie che prima erano in disparte, ma hanno un loro peso nel mondo e quindi è normale rappresentarle. Non è una cosa forzata, è giusta. Se un adolescente omosessuale si vede rappresentato in Tv, non si sente solo. Specialmente se vede un ruolo normalissimo, non la vittima dei bulli o il ragazzo che si suicida».
Vedi quindi un cambiamento positivo nel modo in cui vengono trattati i personaggi e temi lgbt nelle serie, nei cartoni?
«Sì, addirittura la Disney ha fatto diverse serie Tv e animate dove ci sono personaggi Lgbt. Anche rivolte ad un pubblico scolare. Così anche le nuove principesse, in Frozen, Rapunzel, Brave, le eroine sono indipendenti, non cercano il principe o addirittura lo rifiutano».
Hai mai doppiato un personaggio Lgbt?
«No, non mi pare. Mi manca, però mi piacerebbe!»
Ad Eros non è mai capitato di scoccare per sbaglio la freccia verso due uomini?
«Sì, quello è successo. In una scena lui sbagliava a prendere la mira e colpiva due uomini, ma la cosa finiva lì».
Ci sono cambiamenti nei modi di lavorare con le piattaforme online? Perché i prodotti sono aumentati, quindi anche il lavoro per voi doppiatori. Vi mettono fretta?
«La fretta c’è da diversi anni, indipendentemente dalle piattaforme. La velocità è dovuta agli strumenti stessi. Una volta c’era la pellicola che rischiava di bruciarsi, la consolle non permetteva di registrare più di due piste. Ora si va molto più veloce, quindi siamo abituati. La cosa strana è che Netflix e Amazon ti fanno doppiare un lavoro che non è ancora definitivo e poi magari ti fanno ridoppiare le scene che hanno cambiato. Magari hanno aggiunto un “sì” o hanno tolto una battuta».
Quanto tempo si impiega per doppiare un episodio di un cartone animato o una serie?
«È difficile quantificare perché tutte le puntate vengono messe nel calderone e tu inizi a doppiarle. Il singolo episodio in due o tre giorni viene finito, contando solo il doppiaggio. Prima però c’è il lavoro di traduzione e adattamento, preparazione del copione così che l’attore sa quanto debba doppiare. Poi c’è il mixaggio e la sincronizzazione. Il lavoro è più lungo».
Quindi un doppiatore, in un turno, legge i dialoghi del suo personaggio che compaiono in più episodi, senza sentire le altre voci?
«Esatto. Una volta, negli anni ‘50, ‘60 e ‘70, si lavorava tutti insieme. Se in una scena c’erano quattro personaggi, in studio c’erano quattro doppiatori. Ora, sia per velocizzare i tempi che per economizzare, si doppia da soli, in colonna separata. Se uno è il primo a doppiare non sente le altre voci».
Non è difficile rendere le emozioni del personaggio senza sentire le altre parti del dialogo?
«Sì, è più difficile, ma è in questo che sta la bravura e la professionalità del doppiatore. Con Krusty, in 32 anni, ho sempre fatto in colonna separata. Una volta stavo guardando i Simpson e non avevo mai visto quella puntata, vidi comparire Krusty e non riuscivo a collegarlo con l’episodio, non pensavo ci fosse anche lui. Io leggo la frase precedente, quella successiva, mi faccio un’idea e dico la mia battuta».
Quindi si recita con il silenzio intorno e senza sapere esattamente cosa succede
«Sì, ma a me diverte, perché devo dare un senso a qualcosa che non conosco, perché non c’è il tempo né la possibilità di leggere ogni trama di ogni episodio. Quando qualcosa però è più complicata, è il direttore del doppiaggio che ti spiega come dirla in base a cosa sta succedendo».
Quindi è questo il ruolo del direttore del doppiaggio?
«Il direttore del doppiaggio, oltre a scegliere il cast vocale, è un regista che dirige gli attori. Lui ha visto il prodotto in precedenza e ti spiega la psicologia del personaggio, come dire una battuta».
Progetti per il futuro?
«Uno si può dire perché è uscito il trailer di Netflix. Sto lavorando a He-man e i dominatori dell’universo, un sequel della serie anni ‘80. Hanno voluto me perché ho già lavorato a cartoni importanti, come Evangelion, Gundam, ed è una cosa che mi fa molto piacere perché sono titoli storici».
Quello su Evangelion deve essere stato un lavoraccio, visto i problemi dell’adattamento precedente…
«Sì, lì i dialoghi erano troppo vicini all’originale, era una traduzione. Bisogna mediare per il grande pubblico. L’adattatore deve fare fede al suo nome e adattare, senza stravolgere e fare in modo che il pubblico riesca a capire. Senza rovinare l’opera, perché se è rivolta ai bambini il linguaggio non deve essere arcaico o difficile. Bisogna valutare il pubblico di riferimento».
Che voci hai scelto per He-man?
«Per i dialoghi, ci sono due adattatori esperti di He-man, esperti in giocattoli, fumetti, cartoni animati. Hanno rispettato ogni cosa della vecchia serie. Sulle voci non posso ancora dire nulla».
È vero che il doppiaggio è un mondo chiuso, riservato solo alle famiglie di doppiatori?
«È un luogo comune quello che siano tutti imparentati. Non è vero. Ci sono le famiglie, ma numericamente sono di più quelli singoli. Un 80-90% sono quelli puri, poi ci sono quelli imparentati. Il mondo del doppiaggio è abbastanza meritocratico. Ci possono essere cose ingiuste, come in ogni settore, ma se non funzioni si vede. Ci sono stati casi di parenti di qualcuno che ci hanno provato, ma non essendo bravi non sono andati lontano».
Quali sono le nuove voci promettenti del doppiaggio italiano?
«Ce ne sono diverse: Alex Polidori, che ho conosciuto quando era piccolo, doveva salire su due palchetti per arrivare al leggio. Ora ha 25 o 26 anni e doppia Tom Holland in Spiderman. Poi Emanuele Ruzza, Matteo Garofalo, Stefano Broccoletti. Anche Andrea Salierno, che è uno su cui sto puntando molto e secondo me, fra qualche anno, doppierà i protagonisti».