Il G8 di Genova ha segnato il passaggio nel nuovo millennio. Carlo Giuliani con un estintore fra le mani. Le cariche della polizia in via Tolemaide e sul lungomare di Genova. L’assalto notturno alla scuola Diaz. Sono le prime immagini che balzano alla mente di chiunque, presente in loco o meno, provi a ricordare quello che avvenne tra il 19 e il 21 luglio del 2001 per il G8. La città venne divisa in zona gialla e rossa, squarciando le strade della parte antica e del porto con dei varchi da cui era impossibile accedere per i manifestanti.
Eppure Genova non è stata solo questa. È stata l’esperienza con la violenza della polizia e le devastazioni dei Black Bloc che riuscivano a infiltrarsi e confondersi fra le oltre 200mila persone scese in piazza.
Ma anche un cantiere di idee e di dissenso del mondo sociale e dell’associazionismo contro le decisioni imposte dal gruppo di otto potenti della Terra.
Ventuno ne ha parlato con Francesco Martone, attivista e rappresentante della rete “In difesa di” e membro del “Transnational institute” di Amsterdam, all’epoca senatore dei Verdi eletto nel collegio Genova-Tigullio.
Cosa è stato il G8 di Genova per lei?
«Dal punto di vista personale è stato il momento in cui mi sono dovuto riconfigurare da attivista a rappresentante parlamentare, eletto proprio nei luoghi del controvertice. Dopo anni di attivismo in campo sociale e le partecipazioni alle manifestazioni e ai controvertici fin dal 1990, era arrivato il momento di interpretare un nuovo ruolo da svolgere. Già prima della candidatura ero stato attivo nella preparazione dei lavori del Genoa social forum con la rete di Lilliput. Poi con l’elezione in senato avevo l’occasione di portare in aula le istanze dei movimenti. In quei giorni del G8 ero lì assieme ad altri e altre parlamentari. Eravamo presenti per fare monitoraggio, interlocuzione e, se necessario, interposizione per proteggere chi esercitava il proprio diritto a manifestare».
Quali erano le istanze di cui il movimento no-global si faceva portatore?
«Il movimento al suo interno aveva varie anime. Dai sindacati, alle associazioni ambientaliste, antiglobaliste ma anche studentesche, cattoliche e di carattere sociale. Al suo interno era presente anche la rete Lilliput per un’altra globalizzazione. Le battaglie da sostenere erano quelle contro il debito estero, la globalizzazione, a favore della Tobin tax e di un modo alternativo di sviluppo della società che non fosse quello dettato dal mercato. L’ecologia e lo sviluppo sostenibile erano già dei temi presenti 20 anni fa. Il tutto elaborato e definito con un processo orizzontale, dal basso, nel rispetto delle diversità, attraverso il principio della democrazia diretta».
Perché il G8 di Genova è stato teatro di scontri così duri?
«La scelta della sede non è stata felice fin dal principio. Genova ha rappresentato il culmine delle mobilitazioni che si erano verificate nel corso dell’anno precedente. È stato l’appuntamento clou nel quale confrontarsi con chi si riuniva a porte chiuse per decidere le sorti di quello che chiamavamo il “mondo di maggioranza”. Inoltre, già da tempo era stato testato un sistema di repressione, in parte dettato da quella che era percepita come emergenza terrorismo, ma senz’altro usato a dismisura per restringere in maniera drastica e violenta ogni spazio di agibilità».
Cosa ne è stato del movimento dopo il G8 del 2001?
«Non credo che Genova abbia segnato la fine del movimento, come da più parti si sente dire. Per i movimenti italiani ed europei è stata senz’altro un momento traumatico. Ma da lì in poi sono stati organizzati Social forum mondiali ed europei e grandi manifestazioni contro la guerra. E poi il movimento Occupy Wall Street, le primavere arabe, Puerta del Sol e le rivolte destituenti in America Latina. E poi ancora Blockadia, il movimento globale contro l’estrazione di combustibili fossili, Black Lives Matter, Ni una Menos.
Così come la grande mobilitazione globale per la giustizia climatica in occasione della Conferenza sul Clima di Parigi del 2015, all’indomani della strage del Bataclan». (Leggi anche Cile, schiaffo al neoliberismo. «Vittoria del popolo»).
Crede che il governo Berlusconi, insediatosi nel giugno del 2001, abbia tratto giovamento dalle proteste del G8?
«Non credo che la questione vada posta in questa maniera. Il danno di immagine che derivò dalla violenza di quei giorni fu enorme per quel governo. Ma era impossibile che i protocolli di gestione dell’ordine pubblico fossero messi in atto in appena un mese di governo Berlusconi. Gran parte dell’organizzazione risale a quello precedente, di Amato. A questo va senz’altro aggiunto che la presenza di esponenti di destra [il vicepresidente del consiglio era Gianfranco Fini mentre il ministro dell’Interno Claudio Scajola, ndr] diede a molti settori delle forze dell’ordine un segnale di legittimazione per reprimere con una violenza senza precedenti».
Martone, avete mai pensato, insieme al movimento, di sospendere il corteo dopo la morte di Carlo Giuliani?
«C’erano sentimenti contrastanti. Ma era importante esserci nel corteo del 21 luglio, per non abdicare alla repressione. Volevamo avere uno spazio nel quale esercitare i nostri diritti. Sarebbe stato un grave precedente. E poi sentivo una responsabilità in più perché era il territorio nel quale ero stato eletto per il Senato anche con il sostegno di molte associazioni e realtà presenti sul territorio».
Il corteo del 21 luglio, con cariche pesanti della polizia anche su manifestanti inermi, sembrava un anticipo di quanto sarebbe accaduto dopo con la scuola Diaz e al carcere di Bolzaneto. L’Italia ci ha messo un po’ di anni a recepire la convenzione Onu del 1984 contro la tortura.
«Infatti, dimostrando un grave ritardo ma anche forti carenze istituzionali sull’applicazione di convenzioni internazionali sui diritti umani. Questo è dovuto a una scarsa percezione e formazione di ampi apparati dello stato. Ma è stata anche una mancanza di volontà politica di ovviare a ritardi clamorosi. Come quello della creazione di un’Autorità indipendente sui diritti umani che avrebbe potuto operare contro le violazioni perpetrate in quei giorni, sia in piazza che nei due luoghi simbolo della Diaz e di Bolzaneto».
I codici identificativi avrebbero agevolato il compito di questa Autorità?
«Sì, ma non solo. I codici alfanumerici sono strumento essenziale per prevenire comportamenti individuali lesivi dei diritti e della dignità delle persone. Ma non sono sufficienti se manca una cultura di base sul rispetto dei diritti umani all’interno delle forze dell’ordine o se i sindacati di polizia non si impegnano in questo senso. L’Italia è in ritardo anche sull’applicazione della Dichiarazione sui difensori dei diritti umani che impegna la comunità internazionale a proteggerli. Eppure sono più di vent’anni che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite l’ha approvata. Ciononostante troppe sono le denunce di violazione di diritti da parte di chi si impegna nella loro tutela nel nostro paese, da chi opera per proteggere l’ambiente a chi salva vite umane in mare. E più in generale di chi esercita il proprio diritto inalienabile al dissenso.
Molte volte le responsabilità in questi ambiti non sono solo individuali ma bisogna risalire alla catena di comando. Basti pensare alla carriera fatta poi dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro».
Per cui la legge sul reato di tortura introdotta dal nostro Paese solo nel 2017 non è sufficiente.
«Si tratta di un piccolo passo in avanti ma insufficiente alla prova concreta dei fatti. Specie se continuano a verificarsi episodi come quelli al carcere di Santa Maria Capua Vetere, a Caserta, che sono l’equivalente di quanto accaduto a Bolzaneto, in cui la costante che si riscontra è quella dell’impunità e di episodi di prevaricazione da parte di chi indossa la divisa. O quando un allora ministro dell’interno [Matteo Salvini, ndr] scientemente decide di lasciare in mare aperto centinaia di migranti già provati dall’attraversamento di mille frontiere, sottoponendoli a un trattamento inumano e degradante.
Ma gli episodi sulla sospensione dei diritti umani riguardano anche l’uso di lacrimogeni e gas CS, che sono classificati come armi chimiche e che vennero usati a Genova, con conseguenze anche gravi per la salute non solo per i manifestanti ma anche per gli agenti stessi. E poi di recente usati, sparati ad altezza uomo contro i manifestanti del movimento No-Tav in val di Susa».
(Leggi anche L’Onu: «Le sanzioni contro il Venezuela violano i diritti umani». A Cuba carovana contro il bloqueo).
Senza la rete di informazione di Indymedia sarebbe stato possibile venire a conoscenza di queste violazioni? Oggi, con i nuovi media e i social, sarebbe ancora possibile?
«Indymedia, con la sua forma di giornalismo dal basso, è stato un elemento centrale per la denuncia, la testimonianza di ciò che accadeva quei giorni oltre la cortina dei media mainstream. E poi è stato utile anche nella tutela legale dei manifestanti, [avvenuta attraverso il Genoa legal forum, ndr]. All’epoca c’era poca dimestichezza con quel mondo mentre oggi chiunque può denunciare. Ma ciò non preclude che episodi come quelli del carcere di Caserta si verifichino dove è difficile raccogliere delle immagini che possano mettere in luce quello che accade. Per cui occorre ascoltare le voci degli agenti che hanno dovuto obbedire agli ordini obtorto collo. Senza l’adeguata formazione e la conoscenza dei diritti umani è ancora lungo il percorso».