L’Italia sta cambiando? Tutti i luoghi comuni che il Belpaese sta sfatando
L’Italia è ormai per definizione un paese immobile, arenato sui suoi atavici vizi, sui suoi problemi irrisolvibili. Eterno è il fascismo italiano e l’Italia come canta De Gregori è “nuda come sempre”. Lo stivale è il Paese delle controriforme, più che delle riforme, dei gattopardismi, più che delle rivoluzioni. Le canzoni di denuncia degli anni Settanta sembrano valide per ogni stagione, anzi negli ultimi vent’anni sono sembrate ancora più attuali che nei giorni in cui sono state scritte.
Probabilmente se tutti continuiamo a dipingere il Belpaese in un certo modo è perché è davvero così. O forse è una visione superficiale, comoda per le classi dirigenti e intellettuali italiane. Anche un buon alibi per giustificare atteggiamenti di supponenza dei potenti e di arrendevolezza delle classi più povere. In generale una buona giustificazione collettiva data in pasto ai media negli ultimi anni per non tentare mai un cambiamento. Ne abbiamo già parlato nell’articolo sui 160 anni dell’Italia unita.
Un Paese non immobile
Non è proprio così, l’Italia è cambiata anche profondamente e in vari campi nella sua storia, a volte senza accorgersene. Sicuramente nella Penisola c’è una certa propensione alla conservazione e un atteggiamento saggio e distaccato nei confronti del nuovismo, alieno per una civiltà antica come la nostra. Se non cadiamo però in isterie esterofile, non si può che riconoscere agli italiani di aver dato vita più volte a rivoluzioni nel campo culturale, artistico, scientifico, giuridico e a volte anche politico. Nel bene e nel male hanno trasformato anche profondamente non solo il loro Paese, ma il mondo stesso.
Sicuramente l’Italia negli ultimi decenni è sembrata poco dinamica, avvitata su dibattiti sterili. Proprio negli ultimi mesi però, incalzati dall’orribile pandemia, gli italiani qualche luogo comune sul loro conto lo stanno sfatando. Un cambiamento di atteggiamento in campi culturali e nell’immagine pop del Paese magari labile, forse destinato a non durare, ma che bisogna pur cercare di cogliere e raccontare. Trasformazioni che il Belpaese in realtà stava già covando da qualche anno e che sono esplose negli ultimi mesi, liberate dall’Apocalisse del Covid, dal bisogno di reagire al mostro.
Il bel rock all’italiana
Il nostro è il Paese del bel canto all’italiana, per l’appunto. Una tradizione musicale antichissima quella nostrana, conosciuta in tutto il mondo. Una storia gelosa dei suoi riti e delle sue musicalità. Anche nel genere popolare, seppure abbiamo messo da parte il mandolino a favore della chitarra, siamo spesso ancora “il Paese del sole e del mare”, legato alle proprie dolci note d’amore. Una nazione che tutti gli anni si riunisce intorno al palco fisico e virtuale di Sanremo. Kermesse amata di generazione in generazione, ma che finiva per premiare un tipo di canzone, rassicurante per l’arenile perbenista del pubblico del Festival, che i critici definivano appunto “sanremese”.
Proprio nel tempio della tradizione, del nazionalpopolare, quest’anno è successo l’impensabile, con la vittoria dei Måneskin. Il gruppo rock da Sanremo ha iniziato a conquistare il mondo, vincendo l’Eurovision, impresa mancata agli “azzurri del canto” per trent’anni, e conquistando le prime posizioni della classifica rock americana. In realtà qualcosa stava già cambiando sul palco di Sanremo, dove dopo anni di crisi e di vittorie incomprensibili, nell’ultimo decennio abbiamo visto affermarsi anche cantautori come Vecchioni e gli Stadio, l’ironia di Francesco Gabbani e la novità di Mahmood (leggi anche Le canzoni che hanno vinto Sanremo e cambiato l’Italia).
Per anni si era pensato che in Italia e a Sanremo il rock sarebbe rimasto un genere di nicchia. Soprattutto che i nostri rocker non fossero vendibili all’estero, con inutili elucubrazioni su una lingua inadatta e non funzionale al genere decostruzionista. Eppure oggi in un clima internazionale che sembra propenso a riscoprire la musicalità rock (basta pensare alla canzone ufficiale degli Europei 2021), l’Italia ha detto la sua giocando le sue carte per tempo. La canzone del gruppo romano inoltre non è solo una canzone rock, dice qualcosa del mondo in cui si afferma, è un invito a essere sé stessi, liberandosi dai pregiudizi. Un pezzo perfetto per una band politicamente corretta nella sua esaltazione della diversità, che non cede alla retorica trasgressiva tipica di chi quel genere lo ha percorso in passato. Con la loro vittoria all’Eurovision completano un anno fantastico per la canzone italiana che con Laura Pausini aveva già conquistato un Golden Globe e una candidatura agli Oscar per “Io sì”.
Bye, bye catenaccio
Nonostante il Milan delle meraviglie di Arrigo Sacchi, il calcio italiano all’estero è stato sempre sinonimo di catenaccio. Quella strategia difensiva, ostruzionista e furba, che permetteva alle squadre del Belpaese di ottenere vittorie e risultati, puntando tutto “sul non prenderle” e sui nostri contropiedi micidiali. “Bisogna essere matti per pensare di cambiare il calcio in Italia” lo dice pure lo stesso Sacchi, almeno nel film su Roberto Baggio prodotto da Netflix (leggi anche l’articolo sul Divin Codino).
E un matto in nazionale è arrivato. Si chiama Roberto Mancini (leggi anche l’articolo sul fuoriclasse dell’Italia) ed è l’allenatore che ad Euro2020 ha raggiunto risultati insperati esaltando la stessa materia prima che aveva mancato con Giampiero Ventura la qualificazione al Mondiale. Lo ha fatto con goleade e con un gioco bello, divertente, sorprendente che ha stupito e preoccupato i giornali sportivi delle nostre rivali, che hanno applaudito allo scoppiettante 4-3-3 azzurro. Ha compiuto una rivoluzione, dimostrando che non è affatto vero che l’Italia per vincere deve rintanarsi nel catenaccio, come voleva anche il superbo scrittore res gestae del calcio italiano Gianni Brera. Solo nell’ultima partita con la Spagna la compagine azzurra, stanca e sorpresa dal Tiki taka iberico, si è chiusa in difesa.
Molti diranno che le trasformazioni nel calcio sono cambiamenti effimeri, che non modificano la realtà sociale del Paese. Eppure il modo in cui gioca la nostra squadra è una rappresentazione del Paese stesso. Rispecchia il carattere e i vizi della comunità che lo esprime. Lo disse anche con altezzosità inglese Winston Churchill: “Gli italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra”. L’Italia finora si rappresentava e si pensava come un paese che per vincere deve ostacolare l’avversario e baciarsi i gomiti. Oggi i bambini invece stanno imparando a guardare a sé stessi in modo diverso, a riconoscersi in 11 giocatori a cui piace fare la partita, rischiare la giocata, divertirsi ed essere sé stessi.
Infine questa nazionale ha un capitano laureato cum laude. Molti suoi eroi parlano bene l’inglese nelle interviste e inciampano meno che in passato nella grammatica italiana. Studia e si presenta come un team pulito, senza cattivi ragazzi, che canta l’inno nazionale con trasporto. Insomma dà il buon esempio ai giovani italiani.
Gli spaghetti cinecomic
Cinecittà è stata nel Dopoguerra seconda solo ad Hollywood nella costruzione di immaginario collettivo. Prima con il neorealismo, poi con la commedia all’italiana e i sogni di Fellini, quindi con gli spaghetti western e gli horror degli anni Settanta.
Poi è iniziata una crisi acutizzatasi negli anni Duemila. Poche idee, tante commedie o storie romantiche. Poca sperimentazione e voglia di rischiare. Risultati deludenti, se non disastrosi, da quei pochi che cercano di osare. A parte il filone di un nuovo neo-realismo dalle sfumature magiche e oniriche o esistenzialiste, portato sul grande schermo da Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, il cinema italiano sembra lontano dai fasti novecenteschi. Perfino Quentin Tarantino, il più grande cantore del cinema italico, colui che più dei registi nostrani stessi ha tratto dalla storia cinematografica del Belpaese ispirazione per tanti suoi capolavori, ha definito triste la situazione in cui versava la nostra industria dei sogni qualche anno fa.
Qualcosa però sta cambiando. Un processo che era iniziato già da qualche anno e che sta riportando i registi ad osare, a mettere in scena novità interessanti. La trilogia di “Smetto quando voglio” ha portato una boccata d’ossigeno nella ormai stantia commedia all’italiana. Serie Tv come “Gomorra”, “1992” e “Young Pope” hanno nutrito con le loro frasi e i loro anti-eroi un pubblico affamato. “Il Primo Re” di Matteo Rovere ci ha riportato all’era dei Kolossal.
Gli italiani hanno iniziato prima con Gabriele Salvatores, poi con “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Marinetti un’incursione nel genere americano più in voga negli ultimi tempi: quello dei supereroi. Un’operazione simile a quella portata avanti negli anni Sessanta con il genere western. Prendere un filone cinematografico americano per eccellenza e reinventarlo mescolandolo agli odori, ai colori, alla poesia delle nostre città. Magari aiuterà, come ai tempi di Sergio Leone, a portare dinamismo e nuove idee in un genere ormai troppo spremuto oltre-Atlantico. Così il pubblico italiano nel 2021 attende “Diabolik” dei Manetti Bros e “Freaks out” di Marinetti, contento di un Paese che ha ricominciato ad osare, a sporgersi verso linguaggi che sembravano proibiti. Un’Italia forte anche del successo di “Pinocchio” di Garrone, che ha stupito il mondo per la qualità tecnica dimostrata dagli artigiani italiani, conquistando due candidature agli Oscar per i costumi e il trucco e il parrucco.
Un Paese in ascolto
Dopo anni di talent, talk show politici e reality l’Italia ha riscoperto la cultura con la C maiuscola. Attraverso la comunicazione smart di alcune pagine Facebook, le trasmissioni televisive di divulgazione, ma soprattutto l’ascolto dei podcast gli italiani hanno iniziato a riscoprire la loro storia. Per anni abbiamo ripetuto di essere seduti svogliatamente accanto, se non sopra, ad un giacimento di storia e di bellezza unici. Abbiamo lasciato crollare, come accaduto a Pompei, pezzi del nostro mondo. Oggi però la storia ha ricominciato a parlare, la sua eco ad essere udita anche dai più giovani.
Una vera e propria tendenza con veri divi. Il primo è stato Alberto Angela, secondo di una dinastia iniziata con il padre Piero (Leggi anche Quarant’anni di Quark). Le sue trasmissioni in cui ha raccontato le Meraviglie del Belpaese sono state premiate dagli ascolti e dalla critica. È riuscito a rendere orgogliosi gli italiani della propria patria attraverso la narrazione dei Patrimoni Unesco disseminati da Nord a Sud. Un’impresa in un Paese dove per dirla alla Gaber: “Il grido ‘Italia, Italia’, c’è solo alle partite”.
Il vero guru di inizi anni Venti è il Professor Alessandro Barbero. Una voce che dà piacere dice qualcuno, per il modo in cui comunica la storia. Libri, video, ma soprattutto podcast. Ricorda un po’ i riti pre-televisivi, quando le storie non si potevano guardare e venivano raccontate in modo amorevole, a volte ironico, dai narratori più colti e saggi di una comunità. Barbero è soprattutto uno storico molto raffinato, capace di fare piazza pulita delle troppe fake news accumulatesi nei secoli.
Così mentre i paladini della divulgazione divengono eroi nazionalpopolari, protagonisti di meme, pagine Facebook e video ironici, l’Italia ricomincia ad imparare. Grata del miracolo che ha reso pop la cultura, la storia si rimette in moto in questo nuovo mondo di ascoltatori. In questa penisola affamata di saperi.
La ritrovata autorevolezza
Giuseppe Conte, Mario Draghi, Sergio Mattarella. Con tutte le differenze e le critiche che si possono muovere ai due presidenti del Consiglio dell’era Covid e al presidente della Repubblica, non si può non riconoscere un cambiamento accaduto negli ultimi anni. Dopo ere di populisti, derisi dai loro omologhi stranieri, incapaci di parlare in inglese, le istituzioni italiane sono state rappresentate da uomini di raffinata cultura giuridica, economica, rispettati all’estero e che hanno ottenuto diversi risultati in Europa.
Soprattutto l’Italia si è tolta di dosso antichi complessi di inferiorità, che spesso riflettevano gli imbarazzi dei propri leader. Sergio Mattarella ha messo a tacere con una frase (“Noi italiani amiamo la libertà, ma abbiamo a cuore anche la serietà”) Boris Johnson che alludeva a un maggior amore per la libertà del proprio popolo, rispetto al nostro. Giuseppe Conte ha ottenuto il Recovery Fund grazie a un raffinato pressing sugli alleati europei e una dialettica diplomatica che ha avuto grande risonanza, come quando rivolto ai tedeschi ha detto: “Noi non stiamo scrivendo una pagina di un manuale di economia, stiamo scrivendo una pagina di un libro di storia”. Infine Draghi, già conosciuto in tutto il mondo per il ruolo svolto alla Bce, ha alzato la voce in Europa sui vaccini e ha definito senza troppi tentennamenti Erdogan un dittatore.
Certo il populismo è ancora un elemento forte in Italia. I partiti espressione della destra sovranista, sondaggi alla mano, probabilmente governeranno il Paese nel post-Draghi. I partiti di sinistra sono afflitti da altre forme di populismo, spesso ostaggi del renzismo e delle divisioni. Mentre la svolta che voleva imporre sempre Giuseppe Conte nei Cinque Stelle, ha provocato profonde divisioni nella forza uscita vittoriosa dalle elezioni del 2018. Dunque le trasformazioni politiche sembrano labili, destinate ad essere spazzate via dalla rabbia e dalla paura di questo periodo storico complicato.
Nonostante questo emerge nel complesso il quadro di una nazione che sembra avere molte più risorse di quante eravamo disposti a credere. Che ancora una volta ha saputo adattarsi alle gravi crisi di inizio millennio. Molto diverso dal Paese che dieci anni fa entrava nella Grande recessione, svuotato da anni di berlusconismo, in crisi non solo economica e politica ma nello sport, nel cinema, nella musica. Una crisi di identità dalla quale forse stiamo cercando finalmente di uscire.
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