Questo è il primo di una serie di racconti di viaggio scritti durante l’estate 2019. Ve li proponiamo non solo per il loro valore narrativo, ma perché trattano il tema dei migranti siriani da un punto di vista ravvicinato. Buona lettura.
Chiamatemi Osman. Mi rinominò così un liutaio che avevo conosciuto un anno fa nella sua bottega di Gaziantep, nel sudest della Turchia. Non riusciva a pronunciare il mio nome e decise di darmene uno nuovo. Ora mi trovo di nuovo qui e quella gentilezza rimasta impressa nella mia memoria mi fa sentire un po’ meno straniero. È passata già una settimana dal mio arrivo, che ho trascorso in buona parte solo. Avevo deciso di arrivare prima dei miei compagni di viaggio, gli altri volontari, per godermi questo posto, questa città di confine, con la dovuta calma. Nonostante sia il mio terzo viaggio in questa zona, il mio turco è ancora molto scarso, di sopravvivenza.
Quando lunedì scorso arrivai dall’aeroporto e mi fermai al primo ristorante, ero così stanco che l’unica parola che riuscii a pronunciare al cameriere era yemek, ossia cibo. A portare via il mio piatto vuoto c’erano due bambini sui dieci anni. Uno di loro era incuriosito dalla mia macchina fotografica. “Abı – fratellone – quella fa belle foto?”. Gliela misi al collo per provare. Scattò un paio di foto storte, ma le conserverò ugualmente.
“Sono felice che tu sia tornato, ma non capirò mai il perché”, mi dice una mia studentessa d’italiano dello scorso anno, dall’ottimo accento inglese e dalle punte dei capelli tinte di azzurro. Non sono mai riuscito a farle capire quanto questo posto sia stato importante per me. Qui ho avuto la mia epifania. Qui ho capito di dover diventare un giornalista, tre anni fa. E nonostante tutte le disavventure dello scorso anno, non posso stare lontano da Antep troppo a lungo, così come non posso smettere di pensarci. Come una donna che si ha amato troppo da poter dimenticare. Stiamo bevendo insieme una birra in una serata dal clima stupendo, quando veniamo interrotti da un ragazzo turco che ci chiede una sigaretta ed è curioso di sapere la mia provenienza. “Ah, Italy. I know just two words in italian: Grazie and vaffanchiulo”. Attacca bottone con noi e finiamo a parlare di immigrazione. Non gli stanno simpatici i siriani, dice che ce ne sono troppi. Questa frase, purtroppo, mi ricorda l’Italia. Dice che non gli sembra nemmeno più di essere in Turchia.
In effetti sono molti, circa 3,6 milioni, più di tutti i migranti in Europa. Concorda con lui un’altra mia studentessa, che incontro il giorno dopo. Anche a lei non fanno impazzire. Si lamenta che nel suo quartiere fanno casino la sera. Io le faccio notare che se i problemi sono solo questi, stanno gestendo l’immigrazione egregiamente da queste parti. Ma no, il dualismo del Governo turco è sotto gli occhi di tutti, dice lei. C’è un’enorme differenza fra come vengono trattati i siriani, a cui è stata data spesso anche la cittadinanza per farli votare, e le attenzioni riservate ai curdi. Eppure, proprio in questi giorni i migranti sotto “protezione temporanea” sono nel mirino della polizia e secondo la stampa locale almeno 400 di loro sono già finiti oltre il confine, a Idlib.
“Un motivo in più per essere qui”, penso mentre io e il mio amico Alì mangiamo il gelato di Maraș ricoperto di granella di pistacchio. Pochi giorni fa era il suo compleanno e come regalo gli ho portato due mortadelle e un pacco di taralli. Ci siamo conosciuti nel 2016, la mia prima volta qui, quando arrivai poco dopo il golpe. Allora insegnavamo inglese ai rifugiati e prego che quei miei studenti non siano fra quelli coinvolti dai fatti di cronaca. Ripenso alle loro storie, di chi era fuggita dalla Siria sola, senza il marito lontano ed era scampata ai jihadisti, o di chi era stato imprigionato per anni. A guardare questa città, ad osservarla per le strade, non si immaginerebbe mai che si trova a pochi km e a pochi mesi da quella follia. Forse è per questo che mi piace.
Sembra quasi un’oasi. Sarà per il profumo della carne e delle verdure alla griglia che si mescola a quello della baklava e inonda le strade, ricche di colori accesi sulle insegne, di parchi verdissimi fra i cui alberi svettano i minareti delle moschee, a volte storiche e stupende, fatte di grandi pietre bianche, altre volte recenti, piccole e pacchiane, le cui cupole sembrano fatte di stagnola. È in questa terra di contraddizioni e di veneratori del pistacchio che ho trovato la mia strada. Quindi sì, ecco perché sorrido così tanto ogni volta che mi dicono “bentornato”. Perché mi sento a casa.
Luglio 2019 – Tratto da Punto e a Capo – Prima del confine c’è ancora vita