Nel giorno del Bicentenario, Pedro Castillo giura come nuovo presidente del Perù. A duecento anni dall’indipendenza del Paese sudamericano dall’impero spagnolo, sale alla Casa di Pizarro il candidato socialista, del partito Perú Libre. Dopo quasi due mesi dal ballottaggio che lo ha visto contrapposto alla candidata di destra Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto e leader di Fuerza Popular, Castillo Terrones è riuscito a ottenere il riconoscimento di una vittoria di misura – circa 44mila voti – ma contestatissima dalla sua sfidante, che fino all’ultimo le ha tentate tutte per capovolgere l’esito delle urne. Anche invocando la sedizione delle forze armate.
«Una nuova tappa»
«Grazie, popolo peruviano, per questa storica vittoria! È giunto il momento di invitare tutti i settori della società a costruire insieme (…) un Perù inclusivo, un Perù giusto, un Perù libero. Senza discriminazioni, per i diritti di tutti e tutte», ha twittato il neopresidente Pedro Castillo Terrones. «Chiediamo ai popoli afro, costieri, andini e amazzonici, alla classe operaia e ai loro sindacati, alle comunità indigene e a tutta la società di rendere bella questa patria. Oggi, sorelle e fratelli, inizia una nuova tappa della nostra storia». Così il nuovo presidente del Perù ha festeggiato la proclamazione, avvenuta una settimana fa da parte della Jne (Giuria nazionale per le elezioni).
Le prime mosse di Castillo
Maestro elementare, ex dirigente sindacale, 51 anni, l’andino Castillo rappresenta un cambiamento radicale per il Paese sudamericano. E già lascia intravedere come si rapporterà al nuovo incarico: non percepirà, infatti, lo stipendio da presidente, continuando a ricevere quello da maestro elementare, meno di un quinto rispetto all’emolumento a cui rinuncerà. Allo stesso tempo, Castillo ha annunciato che chiederà al Congresso (il Parlamento, con sede a Lima) di dimezzare lo stipendio di ministri e parlamentari. Una moralizzazione della politica a cui si accompagnerà, stando al programma elettorale, una maggiore attenzione all’equità sociale, combattendo disuguaglianze, privilegi per grandi imprese e in generale il sistema neoliberista che favorisce il settore privato rispetto a quello pubblico.
Settimane da thriller
Ma come è finito il ballottaggio dello scorso 6 giugno? E perché sono arrivati così in ritardo i risultati definitivi? Pedro Castillo ha ottenuto 8 milioni 836mila voti (il 50, 12%). Keiko Fujimori si è fermata al 49,87% e non è riuscita a sfatare il tabù del ballottaggio. Per la terza volta, dopo il 2011 e il 2016, la ‘Señora K‘ esce infatti sconfitta dalla sfida per conquistare la Casa di Pizarro. L’affluenza si è attestata intorno al 75% (quasi 19 milioni di votanti su poco più di 25 milioni di aventi diritto). Un cifra elevata, anche se va rilevato che in Perù il voto è obbligatorio, con sanzioni per chi non si reca ai seggi.
Il ritardo nel completamento dello spoglio è stato determinato prima dall’arrivo dei voti dall’estero e dalle zone più remote del Perù, poi dalle contestazioni e dalle accuse di brogli, che hanno portato alla rivalutazione di alcuni seggi. Keiko Fujimori, disattendendo la sua promessa di accettare l’esito elettorale qualunque esso fosse, ha tenuto sotto scacco il Perù per settimane gridando a «brogli» smentiti da vari osservatori internazionali, oltre che dalla Jne (la Giuria nazionale elettorale). Eppure la Señora K, ormai colta dalla disperazione, ha rilanciato chiedendo l’annullamento di 200mila schede, mentre i suoi sostenitori invocavano il colpo di stato da parte dei militari per impedire di finire “sotto il comunismo”. Spalleggiati da vari ex comandanti e ufficiali, ora in pensione, dell’esercito, della marina e dell’aeronautica, che si sono spinti in una lettera pubblica a istigare alla ribellione delle forze armate. Alla fine, però, dopo essersi vista negare anche un audit internazionale dal governo peruviano, la leader conservatrice ha dovuto – sorprendentemente – ammettere la sconfitta.
Un Paese diviso
Il voto peruviano, sofferto e ricco di colpi di scena, fotografa però un Paese nettamente diviso. Non solo destra contro sinistra. L’esito del ballottaggio consegna una frattura anche tra città e campagne, tra zone agiate e zone povere. Castillo ha prevalso in 16 regioni, Fujimori in 9. Per Castillo il sud “ribelle” e la maggioranza delle zone rurali e andine. Lima Metropolitana e costa Nord invece hanno premiato la leader conservatrice, che rischia 30 anni di prigione per associazione a delinquere, riciclaggio, falso e intralcio alla giustizia. Proprio lo scorso 10 giugno il procuratore peruviano José Domingo Pérez ha chiesto di revocarle la libertà vigilata e di emettere un ordine di custodia cautelare in carcere, per aver violato il divieto di comunicare con un testimone legato al processo Odebrecht. Richiesta poi respinta. Alla 46enne figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori – in sella dal 1990 al 2000, ora in prigione per crimini contro l’umanità e corruzione – non è bastato comunque, per vincere il ballottaggio, chiedere “perdono” a poche ore dall’apertura dei seggi, riferendosi ai crimini della dittatura fujimorista. Dall’autogolpe con i carri armati alla repressione violenta dei guerriglieri di sinistra, fino alla sterilizzazione forzata di oltre 300mila donne delle comunità indigene.
Le sfide del nuovo presidente
Le sfide principali dei prossimi cinque anni per Castillo (il cui partito può contare su 37 seggi su 130 in Parlamento) saranno tenere insieme un Paese frammentato e curare le ferite causate dalla pandemia di Covid-19. Con oltre 180mila morti su un totale di circa 33 milioni di abitanti, infatti, il Perù è il primo paese al mondo per morti ogni centomila abitanti e per il rapporto tra casi e decessi. Nonostante chiusure e limitazioni molto severe, infatti, in Perù la pandemia è stata particolarmente feroce. Anche a causa di un sistema sanitario inadeguato e dell’altissimo tasso di lavoro informale: circa il 70%, uno dei più alti dell’America Latina. A rendere ancora più delicata la situazione sono i numeri relativi alla povertà, che riguarda circa il 30% della popolazione, con 1,8 milioni di nuovi poveri registrati nel 2020 a causa del coronavirus. Senza contare i fronti della corruzione endemica, dell’instabilità politica (quattro presidenti negli ultimi cinque anni) e del forte malcontento popolare, sfociato nei mesi scorsi in violente proteste contro l’intero sistema politico. Non sarà una passeggiata.