Costa: «Biden potrebbe mettere fine a trent’anni di Reaganismo»

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Il presidente Joe Biden ha iniziato una piccola rivoluzione negli Stati Uniti? C’è un grande fermento politico negli Usa, il paese che ha dominato la storia del Novecento, cambiando nel bene e nel male il mondo. Dalla fine della Seconda guerra mondiale non è neanche possibile pensare alla storia del nostro Paese, senza guardare alle vicende d’Oltreatlantico. Così adesso per comprendere il mondo che verrà e l’Italia che nascerà nel post-pandemia dobbiamo cercare di approfondire quei cambiamenti a stelle e strisce che negli ultimi mesi abbiamo raccontato. Ne abbiamo parlato con un grande esperto, il vicedirettore de il Post, Francesco Costa (foto sotto).

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In maniera provocatoria in un articolo ci siamo chiesti se il presidente Joe Biden non stesse diventando “socialista”. C’è però a suo parere una svolta impressa da questa amministrazione nella politica americana rispetto al passato? Come mai questo cambiamento impresso da un presidente anziano e dalla cultura moderata?

«Un po’ perché il Partito Democratico si è progressivamente spostato a sinistra, in questi anni, come il Partito Repubblicano si è spostato a destra. Un po’ perché è capitato altre volte nella storia americana che, a fronte di circostanze straordinarie, presidenti da cui si avevano aspettative di cautela e moderazione abbiano intrapreso azioni e soluzioni straordinarie. Abraham Lincoln non si era candidato promettendo di abolire la schiavitù, un obiettivo che non cercò fino alla fase finale della Guerra di secessione. Franklin Delano Roosevelt si risolse a promuovere i grandi investimenti pubblici del New Deal soltanto dopo aver visto fallire misure di austerità che aveva caldeggiato e introdotto. Lyndon Johnson era un mestierante della politica del profondo Sud: non proprio l’uomo dal quale ci si aspettasse la fine della segregazione razziale. Le vicende della storia hanno spesso protagonisti improbabili: Joe Biden sta cercando di cambiare il ruolo dello Stato e della spesa pubblica negli Stati Uniti. Dovesse riuscirci, metterebbe fine a un trentennio di reaganismo».

Ora però Joe Biden è in calo nei sondaggi. A cosa è dovuta questa difficoltà?

«In gran parte è un fenomeno fisiologico. Ogni presidente comincia il suo mandato con un gradimento molto alto, è la cosiddetta “luna di miele”: d’altra parte è reduce da una vittoria, circondato da grandi aspettative, e non ha ancora fatto nulla che possa aver deluso qualcuno. Col passare dei mesi tutti i presidenti atterrano su un livello di consensi più normale. Quello di Biden è ancora molto alto, superiore al 50 per cento: una soglia che Trump non superò mai nel corso dei suoi quattro anni. Poi certo, ci sono anche ragioni più concrete: l’aumento dei prezzi, per esempio, e le incertezze sull’andamento dell’epidemia».

Alle primarie democratiche per la scelta della candidata sindaca di Buffalo ha vinto India Walton, una “socialista democratica”. Negli Usa l’espressione “socialista” non fa più paura? Cosa è cambiato?

«In realtà l’espressione “socialista” complessivamente fa ancora una certa paura: ci sono segmenti demografici in cui il Partito Democratico ha perso molti voti in questi anni – i bianchi non laureati, i latinoamericani di origini venezuelane e cubane – a causa di questa svolta a sinistra. È una delle ragioni per cui alle elezioni del 2020 i Democratici hanno ottenuto risultati deludenti in Florida e in Texas, per esempio: ma è successo anche nel Midwest, in contee popolate soprattutto dalla classe operaia e che dominavano da tempo, o tra elettori che prima di scegliere Trump avevano votato Obama per due volte, e quindi non si possono definire sbrigativamente “razzisti”. Poi c’è stato sicuramente uno slittamento a sinistra del Partito Democratico, speculare in qualche modo a quello avvenuto a destra per il Partito Repubblicano, e uno sdoganamento della parola “socialismo” avvenuto soprattutto tra gli elettori giovani, bianchi e più istruiti (con tutte le eccezioni del caso). I risultati delle primarie presidenziali del 2020 sono abbastanza esemplari in questo senso – e anche la vicenda di India Walton è abbastanza esemplare. È socialista, ma non usa mai questa parola nella sua comunicazione e nella campagna elettorale; e ha vinto soprattutto facendo bene nelle zone più ricche e istruite della città».

Anche contro l’embargo nei confronti di Cuba è nato un appello di 100 intellettuali e vip. Come giudica l’iniziativa? Come giudica l’embargo? È ancora impossibile immaginare un cambiamento su questo tema?

«Penso che l’embargo contro Cuba sia una misura anti-storica, fallimentare, vessatoria. Credo anche che gli appelli di intellettuali e vip non servano a nulla, ma il giorno che l’embargo sarà rimosso sarà comunque troppo tardi. L’unica vera conseguenza geopolitica che l’embargo ha prodotto in questi anni è stato fornire un alibi formidabile al regime, alle sue ipocrisie e inadeguatezze. Per il resto, come sappiamo ne hanno pagato un conto salatissimo soprattutto le persone cubane. Il presidente Obama aveva cambiato molte cose nei rapporti con Cuba, riaprendo le relazioni diplomatiche, eliminando i divieti di spostamento e molte altre restrizioni anti-storiche, ma il Congresso gli impedì di eliminare del tutto l’embargo e il presidente Trump invertì poi ogni passo avanti. Ogni presidente americano deve fare i conti con i tanti americani di origine cubana, che hanno grande forza elettorale – sono concentrati geograficamente in Florida, uno stato spesso decisivo alle presidenziali – e ce l’hanno a morte con il regime comunista da cui sono scappati. Paradossalmente se questo apparente progressivo slittamento a destra della Florida dovesse confermarsi nei prossimi anni, rendendo lo stato meno contendibile, col tempo il Partito Democratico potrebbe sentirsi libero di intraprendere azioni più coraggiose».

Di solito un presidente che manca la rielezione negli Usa è destinato all’oblio. Come mai Trump sembra continuare ad avere un peso importante nell’opinione pubblica americana? C’è la possibilità di un suo ritorno o è fantapolitica?

«Trump è riuscito a costruirsi un culto della personalità dentro un pezzo minoritario ma influente degli elettori del Partito Repubblicano, tra i militanti che partecipano di più alla vita del partito, che si mobilitano, che votano alle primarie, che sostengono economicamente i loro candidati preferiti; con la collaborazione di un ecosistema mediatico che ruota attorno a Fox News, la più vista televisione all news del paese. In questo modo è riuscito a convincere quel pezzo del partito che le elezioni del 2020 gli siano state rubate, e quindi sembra resistere alla spinta verso l’oblio a cui facevi riferimento. Una sua ricandidatura nel 2024 è certamente possibile, anche se non si può dare per certa: e da qui ad allora i problemi giudiziari ed economici di Trump si faranno ancora più gravi».

Quali sono e quale cultura politica esprimono le figure del Partito repubblicano in grado di conquistare la leadership dei conservatori e sfidare i democratici alle prossime presidenziali?

«La cultura maggioritaria che esprime oggi il Partito Repubblicano è quella del trumpismo, che ha amplificato e consolidato uno spostamento a destra che avveniva ormai da tempo. È un partito per certi versi molto lontano da quello che era anche solo vent’anni fa: protezionista in economia, nativista sull’immigrazione e isolazionista in politica estera. Ha tagliato i ponti col suo passato e con la sua storia per abbracciare una visione del mondo debole, vittimista, da sindrome di accerchiamento, che è riuscita a interpretare il risentimento e l’angoscia di quel pezzo di popolazione bianca che sta vivendo l’attuale riequilibrio demografico ed economico – e la perdita di status e privilegi che questo comporta – come un oltraggio. In questo senso è importante capire che l’ascesa di Trump è stata una conseguenza di questo fenomeno, più che una causa. Chi verrà dopo di lui dovrà fare i conti con lo stesso zoccolo duro di elettori, perché questo è quello che chiedono e senza i loro consensi non è possibile avere una carriera politica nazionale dentro il Partito Repubblicano. Di nomi se ne fanno molti, oggi uno dei principali è quello del governatore della Florida, Ron DeSantis. Ma i giochi si faranno davvero dopo le elezioni di metà mandato: e finché Trump non scioglierà la riserva sulle sue intenzioni, molti degli altri staranno a guardare».

Anche se il secolo americano secondo molti analisti è finito, è sempre grande, se non aumentato l’interesse degli italiani nei confronti della politica americana. Come rivela anche il successo del suo ultimo libro “Una storia americana” (foto sotto). Cosa affascina e cosa interessa della politica d’Oltreatlantico?

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«L’egemonia statunitense non è soltanto una questione di geopolitica, di basi militari o di PIL: è in grandissima parte un fenomeno culturale. E la cultura statunitense è ancora straordinariamente capace di precorrere i temi, di esplorarli con efficacia e risultare molto influente: forse più influente che mai, grazie ai social media e alle piattaforme internazionali di contenuti. I dibattiti che avvengono in Europa sul politicamente corretto, sul linguaggio inclusivo e sulle diseguaglianze economiche sono imbevuti di cultura statunitense, e devono alla cultura statunitense le loro parole d’ordine. Durante l’estate del 2020 abbiamo visto addirittura manifestazioni di protesta contro il razzismo in molte città europee, innescate dall’omicidio di George Floyd negli Stati Uniti. L’interesse per la politica americana è una conseguenza di questa egemonia, e anche della sua gran quantità di storie e personaggi pazzeschi: solo se restiamo agli ultimi quindici anni abbiamo Barack e Michelle Obama, Bernie Sanders, Donald Trump, Alexandria Ocasio-Cortez, ma anche Stacey Abrams, Beto O’Rourke, e sicuramente me ne dimentico alcuni».

Leggi anche gli articoli su India Walton e su Biden moderato o socialista.