L’associazionismo ha cambiato la Puglia, ma ora attenti alle degenerazioni
Può l’associazionismo essere una risorsa su cui puntare per far crescere l’Italia? C’è un caso illustre nel nostro Paese ed è quello della Puglia, dove i movimenti hanno cambiato il destino politico, sociale ed economico di una regione che sembrava destinata a rimanere anonima. Per riscoprire questa storia ne abbiamo parlato con uno dei massimi esperti della materia, l’autore di Casa Arci, Vito Saracino (Foto in evidenza di Francesco Marinaro).
Casa Arci (foto copertina accanto) è un lavoro di ricerca prezioso. L’autore ha tributato una doverosa testimonianza alla storia, poco raccontata o esaltata, delle Arci e dell’associazionismo pugliese. Una vicenda che tradisce molte narrazioni preconfezionate di questo Paese, dove vengono esaltati più spesso ben altri modelli economici e altri territori. Una lezione di rinascita dal basso da non dimenticare.
La caratteristica principale che differenzia le Arci del Nord dall’esperienza pugliese, è che nel primo caso c’era una sinistra forte che ha contribuito a costruire le Arci, mentre in Puglia sono le Arci e le altre associazioni che hanno finito per costruire una sinistra vincente…
«La sinistra della Primavera pugliese nasce da una esigenza dei movimenti e delle associazioni. Dagli anni Sessanta inizia a diffondersi un sentimento di allergia alla struttura fortemente gerarchica dei partiti. Già a partire dagli anni Settanta si scorgono iniziative in questo campo. Fino agli anni Duemila, quando in Puglia la protesta contro il contesto monolitico politico allora esistente si fa travolgente e porta alla nascita di una nuova visione strutturale. Una visione che poi si è trasformata in un sistema politico consolidatosi grazie alle due vittorie alle regionali di Nichi Vendola, un fatto storico che ha cambiato una terra tradizionalmente democristiana e bacino elettorale interessante per le destre. Tanti esponenti di questa nuova fase politica erano stati attivisti dell’Anpi, dell’Arci e della UISP per nominare alcune tra le realtà più grandi. È stato l’inizio di un percorso politico che tuttora perdura. Anche se le forze oggi al governo dovrebbero un po’ ricordare le loro origini, perché ultimamente l’identità di questa coalizione si è fatta più nebulosa, meno definita».
Anche nel mondo delle associazioni si sono visti dei fenomeni negativi?
«C’è il fenomeno preoccupante delle associazioni che potremmo definire “ad personam”, nate per permettere a determinate figure politiche fuoriuscite dai partiti di riciclarsi per esempio o di ricandidarsi attraverso liste civiche. Uno snaturamento visto che queste neo-associazioni non guardano spesso a realtà più antiche e con ideali solidi, ma rappresentano nuove iniziative che finiscono per assumere i peggiori connotati della politica clientelare, ricordando un po’ il Sud dell’era giolittiana e attualizzando le critiche che un grande intellettuale pugliese come Gaetano Salvemini fa a questo modus operandi. Le associazioni dovrebbero diventare allergiche a questo civismo forzato, perché il loro contributo dovrebbe consistere non nel fornire voti, ma idee e radici».
Quali conseguenze ha avuto la pandemia sulla struttura associativa italiana?
«Nel periodo pandemico le associazioni hanno messo disposizione delle istituzioni dal basso e in particolar modo dei comuni, il “capitale umano”, come il titolo di un film di Paolo Virzì, per offrire un sostegno per la risoluzione delle problematiche conseguenti al Covid. Le associazioni hanno supplito ad alcune carenze dello Stato, offrendo un importante contributo nei servizi educativi, welfare, servizi sociali e dando una mano anche per la campagna vaccinale. Si tratta certamente di iniziative nobili che ci fanno comprendere però che nel Sistema Italia c’è qualcosa che non va, perché il volontariato non deve diventare la stampella dello Stato».
Lo Stato effettivamente non è neppure sembrato troppo attento d’altro canto alle esigenze delle associazioni…
«Certamente, diciamo che le priorità sono state altre in questo ormai “biennio rosso-Covid”. C’è da ammettere che il presidente del Consiglio Mario Draghi, durante le consultazioni, ha voluto incontrare i vertici del Forum Del Terzo Settore come rappresentanti delle associazioni. Un passaggio che avrebbe potuto portare un chiarimento rispetto al ruolo delle stesse. Purtroppo invece prosegue il limbo. Magari io ho una visione un po’ più “statalista” e andrei oltre, riconoscendo che nelle associazioni si sono create delle competenze e professionalità in vari campi, che possono essere valorizzate con l’inserimento di tali talenti all’interno della pubblica amministrazione italiana. L’associazionismo è una fucina di potenzialità e questa potrebbe essere un’occasione per valorizzare, assumere e trasformare in posti di lavoro queste risorse. Una parte del Recovery plan potrebbe essere usata così e arricchire dunque la comunità attraverso nuove figure professionali. Per esempio il nostro Paese vive anche una grave crisi legata all’aumento dell’età media. Questo potrebbe far nascere un nuovo patto tra stato e associazioni, ritenendo come fondamentale il tema dell’“invecchiamento attivo” e dell’intergenerazionalità».
Eppure il governo sembra poco attento a quelle che sono le sensibilità degli attivisti. L’attuale ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha definito Radical chic gli ambientalisti schierati contro il nucleare. Una battaglia storica, peraltro risultata vittoriosa in due consultazioni referendarie, che ha visto protagoniste le associazioni italiane…
«Come storico contemporaneista, studiando, guardo al passato e al presente, ma rivolto verso al futuro. Ci si aspettava molto dal ministro Cingolani, ma sembra che finora si siano udite soprattutto parole. Attendo di studiare il piano ecologico per il futuro, che sarebbe fondamentale per l’Italia, in cui venga detto cosa verrà fatto per la transizione ecologica nei prossimi anni. Così potremo valutare di che pasta è fatto il ministro e soprattutto in che direzione vuol portare il Paese».
Malgrado certe disattenzioni però, le associazioni sono risorse anche per la crescita economica. Proprio in Puglia hanno prodotto le fortune di questa terra…
«Sì, la Puglia è cresciuta grazie a idee nate nel mondo associativo. Vedi il caso del Teatro pubblico pugliese o la Notte della Taranta, Puglia Promozione e Apulia Film Commission. È nata soprattutto un’idea nuova del territorio di questa regione e della sua valorizzazione e brandizzazione, anche se magari le intenzioni originarie delle associazioni erano differenti».
La regione Puglia ha saputo riconoscere e valorizzare questo ruolo?
«La Regione Puglia spesso è riuscita a riconoscere e a valorizzare il ruolo delle associazioni nel corso del tempo. Ad esempio penso alla Legge Regionale sulla partecipazione del 2017. Questo sì può essere uno strumento importante per le associazioni, bisognerà vedere in futuro quali saranno i risultati di questa partecipazione attiva da parte delle stesse. Perché quando si vive il percorso decisionale talvolta non bisogna solo “partecipare”, ma anche “vincere”, cioè vedere finalmente un provvedimento che riesca a perseguire totalmente i fini proposti. La teoria mi piace, l’idea che anima questa legge. Ora bisogna che l’azione, la prassi, cioè i contenuti non si discostino da essa».
Le associazioni pugliesi hanno sofferto molto il Covid?
«Sicuramente il lavoro delle associazioni durante la pandemia è diventato sommesso, ma è presto per fare un bilancio degli effetti sulle varie realtà. Sicuramente in questo periodo è stato possibile fermarsi a pensare, a riflettere, cosa difficile quando invece le associazioni lavorano a pieno regime e sono oberate di cose da fare e scadenze. Forse quindi sono maturate nuove idee. Dobbiamo attendere, ma credo che le associazioni storiche reggeranno comunque la crisi».
Spesso queste realtà sono state capaci di anticipare i tempi, di vedere quello che le istituzioni non erano in grado di comprendere. Per esempio contro le guerre degli Usa tra gli anni Novanta e Duemila le associazioni pugliesi si sono mobilitate con forza. Non sono state però ascoltate e a volte sono perfino state ridicolizzate nelle loro manifestazioni da politici e opinionisti. Eppure la cronaca afgana degli ultimi giorni (leggi l’articolo sull’argomento) ci dice che avevano ragione, quelle campagne militari sono state un fallimento…
«Spesso chi prevede qualcosa non viene preso sul serio, perché anticipa i tempi in un modo che non tutti sono in grado di comprendere. Però con il tempo alla fine si scopre chi aveva davvero ragione. In Puglia c’è stato un forte movimento pacifista. Questo perché durante la guerra fredda è stata fortemente militarizzata. Qui avevamo i missili puntati contro il blocco sovietico. Soprattutto dalla nostra terra partivano gli aerei intervenuti durante le guerre nei Balcani. L’aeroporto militare di Gioia del Colle e quello di Amendola sono stati protagonisti di diverse operazioni militari degli ultimi trent’anni. I pugliesi a differenza di altre regioni hanno vissuto in modo ravvicinato l’eco di quei conflitti. Anche la geografia ha contribuito a rendere i cittadini più sensibili rispetto a quei popoli. Bari è più vicina a Tirana che a Roma. La nostra storia guarda ad est».
Anche i fenomeni migratori hanno visto la Puglia protagonista. Abbiamo vissuto nella nostra regione il dramma del caporalato.
«Esattamente e l’associazionismo ha svolto e svolge tuttora un ruolo di primo piano, sin dalla prima accoglienza dei migranti del 1991 o denunciando per primo le condizioni dei migranti a San Foca o a Borgo Mezzanone per esempio. Promuovendo iniziative importanti contro il Caporalato e dando vita a progetti sostenibili di prima e seconda accoglienza».
Proprio per il mondo dei movimenti pacifisti, ambientalisti e progressisti italiani questo è un anno particolare. Sono i vent’anni dal G8 di Genova (leggi anche l’articolo di Giuseppe Gabrieli) e dalle violenze subite dai manifestanti. Eppure anche qui, dopo due decadi possiamo dire che su quelle critiche rivolte al sistema internazionale quelle persone che hanno protestato nell’estate del 2001 avevano ragione?
«Sì, lo slogan “un altro mondo è possibile” resta ancora valido. Quello che però manca è una chiara nuova direzione da intraprendere».
Il 16 settembre Vito Saracino sarà ospite del Circolo Arci Tressett 37 di Giovinazzo nell’ambito della rassegna “L’Italia che non si vede”
Leggi anche l’intervista a Nico Bavaro su Nichi Vendola