Santiago, 11 settembre 1973. Mezzogiorno. Gli aerei militari bombardano la Moneda, il palazzo presidenziale. Dentro, il presidente Salvador Allende. Occhiali, giacca di lana, maglione a rombi chiari e scuri e un paio di pantaloni grigi. Con lui dodici membri del Gap (Gruppo di amici personali, gli addetti alla sicurezza del «Compagno Presidente»). Poco distante, centinaia di soldati attaccano il ministero dei Lavori pubblici, difeso da altri sei uomini del Gap. Fumo, fuoco. «Uscite», è l’ultimo ordine di Allende ai suoi, prima di suicidarsi. Risparmiando al popolo cileno l’umiliazione della sua cattura, tradito da chi avrebbe dovuto garantire la sicurezza del Paese.
Il golpe made in Usa
La fine della democrazia, in Cile, ha una data precisa. Quarantotto anni fa i militari guidati dal generale Augusto Pinochet eseguivano il piano studiato e finanziato dal consigliere per la sicurezza nazionale Usa Henry Kissinger, rovesciando con le bombe il governo democratico di Salvador Allende e della sua coalizione, Unidad Popular.
«Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli». Così diceva Kissinger, successivamente segretario di Stato Usa e premio Nobel per la pace – proprio nel 1973 -, a proposito dell’elezione di Allende, avvenuta il 4 settembre 1970. Una vittoria, quella del fronte socialista, che non era mai stata digerita a Washington, dove l’amministrazione Nixon non nascondeva le sue preoccupazioni economiche e geopolitiche.
Tanto è vero che i tentativi di mettere fine all’esperienza di Unidad Popular, che stava costruendo la “via cilena al socialismo”, non sono mancati nei mille giorni di governo Allende. L’ultimo, nemmeno tre mesi prima del golpe che ha cambiato la storia del Cile e dell’America Latina, è datato 29 giugno 1973: allora era stato il generale Carlos Prats, poi rimpiazzato da Pinochet, a fermare il colpo di Stato. Fedeltà pagata con la vita: a dittatura instaurata, Prats sarebbe stato raggiunto da un commando a Buenos Aires.
Militari e mercato
Con il golpe dell’11 settembre 1973, per il Cile iniziò una feroce dittatura, terminata solo nel 1988, quando un referendum sancì la “transizione” alla democrazia, recuperata formalmente nel 1990. Una dittatura, quella di Pinochet – scelto da Kissinger perché ritenuto il più fidato difensore degli interessi a stelle e strisce nel pieno della Guerra Fredda – basata su stermini, sparizioni, saccheggi e torture.
Ma anche sulla teoria economica neoliberista stilata da Milton Friedman e dai suoi colleghi della Scuola di Chicago: meno Stato, più mercato, privatizzazioni a non finire e deregolamentazione dei rapporti di lavoro. Principi cristallizzati nella Costituzione del 1980, che il 25 ottobre 2020, dopo un anno di forti mobilitazioni in tutto il Paese, i cileni hanno archiviato con un altro importante referendum. Vinto con una valanga di Apruebo (Sì).
Verso le presidenziali
Un successo popolare suggellato dal voto per la nuova Assemblea Costituente e per sindaci, amministrazioni locali e governatori regionali, che lo scorso maggio ha sorriso alla sinistra e agli indipendenti (leggi anche Cile, schiaffo al neoliberismo. «Vittoria del popolo»). Senza contare i movimenti femministi e i popoli indigeni. Con una batosta netta della destra e in generale delle forze neoliberiste. Ora però l’attenzione è rivolta al prossimo 21 novembre, quando in Cile si terranno le elezioni presidenziali. A sfidarsi per succedere al presidente uscente Sebastián Piñera saranno nove candidati. Tre i più accreditati per giocarsi la presidenza: Sebastián Sichel (centrodestra), Gabriel Boric (sinistra) e Yasna Provoste (Nuovo patto sociale).