Campo centrale, New York, una domenica sera. Poteva essere un giorno diverso da tutti gli altri, invece no. Si consuma il riposo, l’ultimo, della finale individuale maschile. E’ l’epilogo di una tragedia greca: la vita scorre davanti agli occhi di un ragazzo serbo. La gente scandisce il suo nome: “Novak Novak“. Lui sa che in campo ci resterà ancora pochi istanti. Aspetta il “time” come fosse una liberazione. Rivede tutto: e se non fosse andata così?
Già, in un attimo rivede i trofei alzati nel 2021, ma anche i due appuntamenti più attesi. Dopo il primo anche il secondo sta fuggendo via. Blowin in the wind, maledetto Bob!
“No-vak, no-vak” ora è tutto lo stadio. Alza il pugno, dirige il coro. Ancora attimi, sparisce sotto l’asciugamano, ma la sua delusione è davanti agli occhi di tutti. Nello stadio e, per chi la può vedere, in tv.
Quello spazio televisivo che viene affidato agli sponsor è – paradossalmente – il momento più simbolico e indicativo di quello che è stato. L’auto dei sogni, la pasta italiana, l’orologio che fa tendenza…
Finiscono per nascondere l’attimo fuggente.
Per una volta una finale di tennis, la finale degli US Open, non la raccontano i numeri. Quelli dicono semplicemente che uno dei due finalisti è sceso in campo. L’altro no.
Vi spiegheranno che gli “unforced errors”… che la percentuale di primi servizi… che i colpi vincenti…
Stavolta non guardatele, le statistiche.
Danijl Medveded ha vinto facendo il suo, Novak Djokovic ha perso praticamente non giocando.
Sei-quattro-sei-quattro-sei-quattro, sembra una tiritera, si sarebbe potuto giocare per ore, per giorni, per mesi. Sarebbe stato periodico.
Stavolta è bastato il linguaggio del corpo. Le gambe piantate per terra come fossero travi di legno di quercia, le flessioni, gli spostamenti, la lotta da fondocampo… Tutto per il Campione è rimasto nello spogliatoio. Tutto travolto dal peso delle responsabilità.
Colonna sonora: Under pressure
E dire che il film l’avevamo già visto, neppure tanto tempo fa. Lo sguardo di Serena Williams aveva spalancato un mondo, qualche anno fa, fin dalla camminata lungo il corridoio per fare ingresso sul campo centrale. Contro di lei, c’era la Vinci. Anche in quel caso il maledetto appuntamento con la storia, per riscriverla, era stata fatale.
Ma Djoko? No, a Djoko questo non può accadere.
Invece…
Torna in mente l’icona della campionessa che ha avuto il coraggio di parlare di questo “male oscuro”. La pressione. Naomi Osaka. È matta, abbiamo pensato più volte, di fronte alle sue bizze. È un anno che va avanti così. Lei questo piccolo male lo ha sparso in tutta una stagione, chissà da quanto se lo porta appresso. Novak lo ha compresso dentro, è riuscito a trovare la quadra. Quello che sta accadendo spiega. Spiega l’urlo sovrumano esploso battendo Berrettini; spiega la rabbia furiosa di Tokyo, Giochi olimpici, e forse persino riporta a quella pallata involontaria che gli costò la sospensione da queste parti solo un anno fa. Immagini, pensieri, ricordi che il numero 1 rivede – tutti insieme – sotto quell’asciugamano. Gioie e dolori si sciolgono in disperati singhiozzi.
Time, dice l’arbitro. Novak tira un sospirone, si asciuga gli occhi arrossati, si alza in piedi, va incontro all’ultimo game. Al servizio Medveded, dice al microfono l’umpire.
Novak guarda la sua racchetta, ne ha appena distrutta una. Fra poco l’incubo è finito. Finalmente.