Erika, la presidentessa dell’associazione, mi chiede come conosca quel tizio che si è presentato alla nostra porta. Ero arrivato solo da un giorno quando, facendo alcuni scatti lungo la via principale di Gaziantep, sono stato fermato da tre persone. Due uomini siriani e una donna, incredibilmente, italiana. Erano straniti nel vedere un altro italiano e ho risposto loro dicendo di essere semplicemente un turista, nonostante non volessero credermi. Ed eccoci lì, pochi giorni dopo, in una stretta di mano a dir poco imbarazzante. “I knew you weren’t just a tourist”, dice lui. Si chiama Mahmoud, con lui c’è un suo amico che si presenta come Mayar, che Erika aveva già conosciuto in passato e aveva invitato per parlare di una possibile collaborazione. Quei due sono entrati a far parte della nostra quotidianità, aprendoci le porte a nuove conoscenze. Eppure, dopo tante limonate, çai e caffè, quello strano primo incontro continua a tornarmi in mente, come se accettare il loro invito a seguirli al ChitChat per bere qualcosa sarebbe stata la successione di eventi più corretta e ora il destino mi avesse rimesso sulla via giusta con una forzatura della trama. Questo è quello che realizzo mentre sono seduto a gambe incrociate su un tappeto nella veranda di Mahmoud. Stiamo bevendo vino e mangiando formaggio intinto in una salsa con l’origano chiamata labneh. È la sera del compleanno di Virginia, una delle due volontarie rimaste qui. Abbiamo portato una torta e quando accendiamo le candeline, la cera cola pericolosamente sullo strato di cioccolato. Un soffio prima del tempo risolve la situazione, mentre il padrone di casa sta ancora portando da mangiare.
Waad, compagna di Mahmoud, riscalda il carbone per il narghilè. Odio il fumo, ma stavolta non posso rifiutare e prendo una boccata. Il tabacco sa di mela e si mescola al sapore della frutta secca. Stiamo aspettando Mayar, che tarda ad arrivare. Mahmoud fuma una sigaretta e lo sguardo mi cade sulla sua mano, su come serra il medio e l’anulare sul filtro. Già alla prima stretta di mano, quel giorno in ufficio, mi ero accorto di quella mancanza, quindi ho sempre evitato di fissargli il punto dove avrebbe dovuto avere l’indice. Mi chiedo come l’abbia perso, se durante uno scontro o in un banale incidente. So che ha partecipato alla resistenza, ma non ho il cuore di chiederglielo.
Avevo già sentito qualcosa sul suo passato, aveva già accennato alla guerra civile, pur in tono scherzoso. “I should teach you guys how to make a revolution”, per questo speravo di entrare in argomento, ma non volevo forzare i tempi. Prima che possa trovare un modo per farlo parlare, ci pensa Silvia, l’altra volontaria. È incuriosita dal perché Mayar si presenti come tale invece che col suo vero nome, Mohammad. La semplicità della risposta di Mahmoud è disarmante: “It was his nickname during the revolution” .
I due amici si conoscevano di vista già ai tempi di Aleppo, ma sono diventati amici qui, lavorando per Medici Senza Frontiere. Si sono incontrati solo dopo lo scoppio della rivoluzione, perché in origine l’uno viveva nella parte ovest della città, mentre l’altro nella parte est. Con la divisione della città fra i fedeli di Assad e i ribelli, le cose sono cambiate.
Anche il fratello di Mahmoud è conosciuto con un altro nome, Abu Ismail, con cui si firmava su Reuters. Mi chiede se conosca la foto della donna anziana che esce a fatica dalle macerie. È una foto di suo fratello, scattata sempre ad Aleppo. L’uso di un altro nome era utile per Skype, il loro unico mezzo per comunicare nel 2011, e da lì continuarono a chiamarsi usando lo pseudonimo anche di persona. Le chiamate venivano però intercettate, il software non era protetto e molte persone sono state arrestate. Nell’agosto del 2012, con l’arrivo dei ribelli ad Aleppo, Mahmoud si trasferì nella zona di opposizione, dove lavorava all’organizzazione della distribuzione dei viveri. Doveva incontrare sempre troppe persone e in troppi lo conoscevano col suo vero nome, così lo pseudonimo gli scivolò via. Sua madre, nel frattempo, viveva nella zona controllata dal regime e quindi non poteva più visitarla o sarebbe stato arrestato immediatamente. Il suo telefono era registrato a nome di suo zio, a cui diedero per questo la caccia e gli bruciarono la casa. “He still hates us for this”, dice ridendo, ma non so dire se scherzi. Altri della sua famiglia furono arrestati dalla Air Force Intelligence Directorate, l’agenzia d’intelligence più importante delle Siria che, nonostante il suo nome, non ha niente a che vedere con l’aviazione. Dopo 15 giorni di detenzione furono scarcerati e riuscirono a raggiungerlo fuori dal controllo di Assad, grazie a un contrabbandiere di sigarette.
All’epoca non c’era nessuno ad aiutarli, nessuna Ong, nessuna associazione umanitaria. L’organizzazione dei forni fu un’iniziativa locale. Il pane c’era già, serviva una gestione ordinata per evitare un assalto da parte dei cittadini e furono creati dei punti di distribuzione. Mahmoud diede una mano grazie alla sua esperienza acquisita lavorando per anni per la Pepsi, gestendo gli ordini per i clienti. L’idea funzionò finché il pane iniziò a scarseggiare e molte persone tornarono ai forni, causando disordini. “But we were so happy”, racconta lui sfoderando un sorriso sincero su quel grande volto ricoperto dalla lunga barba, più folta dei pochi capelli rimasti, incorniciato dalle due grandi orecchie a sventola. Il primo anno per lui era stato duro: dopo tre mesi dall’inizio della rivoluzione aveva avuto un incidente stradale ed era rimasto a letto per 7 mesi, in cui l’unica cosa che poteva fare era guardare il notiziario da cui vedeva il suo paese bruciare. Quindi all’inizio non ebbe occasione di unirsi alla lotta e si rifece aiutando a gestire l’anarchia di coloro che non volevano più vivere come sudditi della dinastia Assad.
Mentre lo ascolto, Waad mi passa un altro tè caldo. Il boccaglio del narghilè passa dalle mani di Silvia a quelle di Virginia, infine alle mie. Aspiro e soffio via il fumo che si dirada nella luce calda che proviene da dietro le spalle dei due ospiti. Di loro vedo solo la silhouette. Dalla radio in salotto fuoriescono alcune note che conosco. Sento un brivido, come quello di un pericolo imminente, come l’attivarsi di un istinto. Alle prime parole della canzone, i miei timori sono confermati. È “Lasciatemi cantare” e davvero non capisco perché la stiano trasmettendo o, peggio ancora, perché Mahmoud l’abbia messa nella playlist. All’arrivo di Mayar c’è ancora del vino da fargli assaggiare, forse perché mi sono dedicato prevalentemente alla torta fatta come il salame di cioccolato. È ormai l’una quando ci accorgiamo che abbiamo dimenticato di brindare allo scoccare della mezzanotte. Rimediamo subito, omaggiando la neo ventiquattrenne. Continuiamo a bere, progettando senza troppa serietà un viaggio sull’Eufrate per il fine settimana, prima che le ragazze partano. Forse parliamo a voce troppo alta o ridiamo troppo, ma ci accorgiamo che è tardi solo quando una donna dal palazzo di fronte ci minaccia di chiamare la polizia, infastidita dalle chiacchiere in inglese. O almeno, questo è quello che mi è parso di capire dalle sue urla. Decidiamo di andare, salutando tutti per la bella serata. Quando chiudiamo la porta e rimettiamo le scarpe che avevamo lasciato sul pianerottolo, la festeggiata imbraccia il libro fotografico lasciatole da Mahmoud come regalo di compleanno: Life in Syria, sguardi di Aleppo e Idlib. Ve lo consiglio, merita davvero.
Agosto 2019 – Tratto da Punto e a Capo – Prima del confine c’è ancora vita