Complice il ritorno dei tifosi negli stadi, nelle ultime settimane il razzismo è tornato prepotentemente (e tristemente) ad affacciarsi sulla Serie A. Vero, probabilmente non era affatto scomparso, ma l’eco mediatica dei casi che hanno coinvolto il portiere del Milan Maignan a Torino e, pochi giorni fa, il difensore del Napoli Koulibaly a Firenze ha riaperto una ferita mai rimarginata.
Col medesimo corollario di sempre: parole di indignazione, apertura di un’inchiesta della Procura federale, eventuale individuazione e punizione del reo (con tanto, non di rado, di patetiche sceneggiate autoassolutorie a filo di telecamera – vedi il tifoso che ha insultato Maignan – mentre per Koulibaly siamo ancora alle battute iniziali delle indagini). Ma, nella sostanza, di soluzioni strutturali, vale a dire pene davvero esemplari (squalifiche a vita dagli stadi per i tifosi razzisti?), neppure a parlarne. Tutto rimane sempre com’è.
Gavillucci, un record (probabilmente) costato caro
O meglio, negli ultimi tempi sembra essersi verificato un ‘salto’ di qualità nei comportamenti del razzista da stadio, che tende ‘furbescamente’ a sfogare la propria ignoranza prima o dopo la partita, evitando il rischio di un’interruzione a gara in corsa che potrebbe danneggiare la propria squadra. Tuttavia si tratta di un pericolo che, come dimostra la storia dell’arbitro Claudio Gavillucci, rischierebbe paradossalmente di abbattersi più sul direttore di gara che se l’assume che sui tifosi razzisti o sulle società. Gavillucci infatti detiene il record di essere il primo direttore di gara a sospendere un match di serie A, Sampdoria-Napoli del 13 maggio 2018, in seguito a cori razzisti.
Anche in quel caso la vittima fu il senegalese Koulibaly, ad opera di quei tifosi (?) doriani che non mancarono di insultare per la loro provenienza territoriale anche i supporters partenopei. Risultato? Altro che encomi all’indirizzo dell’arbitro per il messaggio lanciato di tolleranza zero e per la sua corretta applicazione del regolamento: Gavillucci di lì a poco, ufficialmente per cause di natura tecnica, nonostante cinque anni di A alle spalle venne declassato dalla Commissione arbitrale all’ultimo posto della graduatoria Aia ed estromesso dopo un lungo iter dalla lista dei direttori designabili.
Una sorta di paradossale Daspo al contrario, in cui la punizione più che ai razzisti è stata comminata a chi li ha combattuti. Da allora il 42enne fischietto di Latina ha terminato la carriera arbitrale ad alti livelli, tanto da emigrare in Inghilterra, dove lavora e arbitra nei campionati dilettantistici e semi-professionistici.
Le ombre nel libro
Un libro-dossier, “L’uomo nero, le verità di un arbitro scomodo”, da lui pubblicato nel 2020, racconta tra le altre cose (si parla per di più delle opacità del sistema arbitrale italiano) la sua versione di quell’episodio, adombrando (pur specificando di non avere prove) che la doccia fredda della bocciatura fosse attribuibile anche a quell’inedito ‘stop’ per razzismo. Evidentemente poco tollerato dall’Associazione Italiana Arbitri, come dimostrano le ‘orecchie da mercante’ fatte spesso negli anni successivi da arbitri e ispettori di gara pur di fronte a cori discriminatori ben evidenti (clamoroso il caso di un Inter-Napoli di fine 2018, arbitrata da Mazzoleni).
Ora l’indignazione ai cori che nei giorni scorsi hanno investito Koulibaly – anche a fronte della veemente e giustificata reazione del difensore (nella foto principale, tratta dal suo profilo Instagram) – è stata forte: basti pensare che, stando a quanto scritto da La Repubblica, il Napoli ai prossimi guaiti potrebbe fermarsi e smettere di giocare. C’è da sperare che, una volta tanto, sia altrettanto decisa anche la risposta della giustizia sportiva.