Dante e gli Aragonesi nella Commedia
In conclusione dell’anno dedicato a Dante Alighieri, pubblichiamo la terza e ultima analisi, a cura di Matteo Cazzulani, inerente al rapporto del Poeta con le potenze geopolitiche del suo tempo (qui la prima, qui la seconda).
Positiva per gli svevi, nel complesso negativa per gli angioini. La maniera con la quale Dante, nella Commedia, si sofferma sulla terza grande potenza straniera del periodo che va a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, gli aragonesi, va da una speranza iniziale a una delusione finale.
Tuttavia, prima di analizzare come il Poeta considera esponenti della casata di Aragona nel Poema, è opportuno chiarire, con un inquadramento storico, origine e vicende della statalità aragonese-catalana.
Il Regno di Aragona (e Catalonia) dalle origini al XIV secolo
Monarchia composita, altrimenti definibile ‘confederazione di entità politiche autonome’, la corona di Aragona ha origine nel 1137 per mezzo della fusione tra il Regno di Aragona e la Contea di Barcellona (comprendente la Contea di Provenza, Girona e la Cerdagna) suggellata dal matrimonio tra Raimondo Berengario IV di Barcellona e la regina Petrilla di Aragona.
Re Alfonso II, asceso al trono nel 1162, pone l’espansione del regno nei Paesi d’Oc come priorità della propria politica estera, finendo per attuare una politica matrimoniale ‘aggressiva’ nei confronti dei conti di Tolosa e Foix, atta a consolidare l’egemonia aragonese nella regione per mezzo della creazione di forti legami parentali con le principali famiglie del sud della Francia.
Il controllo politico degli aragonesi sulle regioni della Lingua d’Oc ha però fine con la Crociata Albigese, iniziativa politica ingegnata da Papa Innocenzo III nella prima metà del XIII secolo, col sostegno dei re Capetingi e della nobiltà del nord della Francia, intesa ad espandere i dominii di re Filippo II di Francia e del cattolicesimo sulla Contea di Tolosa e sul resto della Francia meridionale, ove la confessione catara, così come la poesia trobadorica legata ai valori delle corti ed alla lingua d’Oc, sono, all’epoca, largamente diffuse e fortemente radicate.
Accorso, con una coalizione di catalani, aragonesi ed occitani, in sostengo del cognato e vassallo Raimondo VI conte di Tolosa, cacciato dalle truppe francesi di Simone di Montfort, Pietro II, il 12 settembre 1213, viene sconfitto a Muret, e si vede costretto a consegnare, in via definitiva, i territori dei Paesi d’Oc ai Capetingi.
Dovendo rinunciare ad ogni ambizione territoriale a nord dei Pirenei, la casata di Aragona riorienta dunque le proprie ambizioni geopolitiche nel Mediterraneo, incorporando Maiorca e Valencia nel regno con Giacomo I, e intervenendo negli affari politici della penisola italiana a seguito della rivolta dei Vespri Siciliani, nel 1282, con Pietro III.
‘Forte’ del legame matrimoniale con Costanza II di Svevia, figlia di re Manfredi ed erede del trono di Sicilia, Pietro III si impone sulla Sicilia, cacciando gli angioini dall’isola grazie anche alla scarsa popolarità degli Angiò presso la popolazione isolana.
Alla sua morte, Pietro III lascia la corona di Aragona ad Alfonso III, e la Sicilia a Giacomo II. Succeduto al fratello sul trono di Aragona, Giacomo II, a sua volta, concede la reggenza sulla Sicilia a Federico d’Aragona nel 1291.
Nonostante la promessa di consegnare la Sicilia ai francesi in cambio della mancata intromissione dei Capetingi nelle questioni interne alla corona d’Aragona effettuata da Giacomo II, la popolazione siciliana nomina Federico d’Aragona re dell’isola nel 1296. Costui inizia così una campagna militare che porta alla sconfitta degli angioini e alla pace di Cartabelotta nel 1303. La Sicilia è consegnata agli aragonesi fino alla morte di Federico d’Aragona, mentre agli angioini viene lasciata la sovranità sull’Italia meridionale.
Nell’ambito della lotta contro gli angioini, protettori della fazione guelfa filopapale, Federico d’Aragona stabilisce legami politici con la fazione ghibellina filoimperiale nell’Italia centro-settentrionale, sostenendo la famiglia Colonna a Roma nella loro lotta contro Papa Bonifacio VIII, e proponendosi come principale alleato dell’Imperatore Arrigo VII, che, a sua volta, lo nomina ammiraglio dell’Impero.
L’idillio tra Federico d’Aragona e Arrigo VII, tuttavia, termina con la morte dell’Imperatore, fatto che spinge il re di Sicilia ad abbandonare quell’ambizioso progetto politico, che lo aveva legato così fortemente alla parte imperiale, volto ad eliminare la presenza angioina in Italia, e a ridimensionare l’influenza del Papato sulla penisola italiana.
Il sostegno dato ad una coalizione ghibellina in occasione dell’assedio di Genova, così come la confisca di una serie di beni ecclesiastici in Sicilia, costano a Federico d’Aragona una scomunica nel 1321, ad opera di Papa Giovanni XXII.
Pietro III
Il primo personaggio appartenente alla casata aragonese che compare nella Commedia è Pietro III, che Dante colloca, tra i salvati, nel Purgatorio, nella Valletta dei Principi Negligenti. È qui che Sordello presenta in rassegna al Poeta e a Virgilio una carrellata di sovrani raggruppati per coppie, i cui successori, secondo l’Alighieri, non sono stati in grado di ripetere i successi dei padri.
Rappresentato in coppia con il “nasuto” Carlo I d’Angiò, il rivale a cui ha conteso il controllo della Sicilia, Pietro III è considerato un sovrano di valore, introdotto con note di lode da parte di Sordello nel Canto VII del Purgatorio.
A confermare tale opinione, oltre al sostegno che Pietro III ha fornito alla tradizione letteraria trobadorica ‘cortese’, alla quale Dante è fortemente legato, è la considerazione secondo la quale qualora a succedere al sovrano aragonese fosse stato suo figlio Pietro (“giovinetto”, in effetti morto giovane, che nella Valletta del Purgatorio siede dietro al padre), la corona di Aragona avrebbe potuto vantare una successione più degna rispetto a quella che, effettivamente, ha avuto luogo con Giacomo II e Federico d’Aragona.
Quel che par sì membruto e che s’accorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
d’ogne valor portò cinta la corda; 114
e se re dopo lui fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in
vaso, 117
che non si puote dir de l’altre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessun possiede. 120
Federico d’Aragona
Dopo essere stato contestato assieme al fratello Giacomo II nel Purgatorio in quanto sovrano possedente i reami ma non il valore del padre, Federico d’Aragona è l’oggetto di una delle critiche politiche più aspre della Commedia, riportata, nel Canto XIX del Paradiso, in occasione del ‘Discorso dell’Aquila’.
Nel corso della sua permanenza nel VI Cielo, quello di Giove, Dante incontra una schiera di spiriti giusti che, dispostisi a forma di Aquila, parlando all’unisono, presentano al Poeta una rassegna di prìncipi corrotti, rei di essersi resi protagonisti di malefatte che stridono coi princìpi del cristianesimo. Tra i nomi di tale ‘lista nera’ figurano Federico d’Aragona, Giacomo II, e suo zio Giacomo II re di Maiorca.
Federico d’Aragona, in particolare, è criticato per la sua avarizia, viltà e pochezza. Sono proprio queste attitudini che, sottolinea Dante, per tramite degli spiriti giusti, disonorano la casata di Aragona.
Vedrassi l’avarizia e la viltate
di quei che guarda l’isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate; 132
e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo
loco. 135
E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze. 138
La delusione politica di Dante
Il passaggio da un giudizio chiaramente positivo nei confronti di Pietro III ad un’aspra invettiva nei confronti di Federico d’Aragona è l’opposto della maniera con la quale Dante, per mezzo di una serie di opinioni via via sempre più positive, ha presentato, nel corso della Commedia, la casata di Svevia e l’imperatore Federico II in particolare. Nei confronti di Stupor Mundi, come già visto ed analizzato (XXX), Dante effettua infatti un bilancio, seppur leggibile tra le righe, a tinte colorate.
Tale approccio nei confronti degli aragonesi è spiegabile proprio per mezzo dei legami che gli esponenti della casata di Aragona mantengono con gli Svevi e gli Imperatori.
Da un lato, Pietro III, marito della figlia di re Manfredi di Svevia, e dunque legittimo erede della corona di Sicilia, appartenuta e onoratamente rappresentata da Federico II, è colui che interviene militarmente nell’Italia meridionale per contrastare il predominio degli angioini, alleati del Papa, protettori del partito guelfo. Non a caso, come già riportato, gli Angiò sono oggetto di un’opinione fortemente negativa da parte del Poeta (XXX).
Altresì, lecito sottolineare come Pietro III fosse fortemente impegnato nel sostenere la poesia trobadorica, tanto da vantare presso la sua corte la presenza di trovatori provenzali. Tale peculiarità tratteggia un elemento di continuità con la tradizione culturale delle corti che, a più riprese nella Commedia, Dante identifica con l’Imperatore Federico II di Svevia, e considera un’epoca di sviluppo intellettuale bruscamente interrotto dell’Inquisizione papale, oltreché dalla discesa degli angioini in Italia, e dalla conseguente egemonia politica dei guelfi sui ghibellini nel centro-nord della penisola.
D’altro canto, Federico d’Aragona, nominato ammiraglio dell’Impero da Arrigo VII in persona, finisce per abbandonare l’alleanza con lo schieramento imperiale e la fazione ghibellina al momento della morte dell’Imperatore, preferendo concentrarsi unicamente su priorità politiche locali dalla prospettiva geografica e politica circoscritta alla sola Sicilia.
‘Traditore’ del disegno politico atto a ristabilire il potere imperiale nella Penisola Italiana concepito da Arrigo VII, personalità su cui Dante ripone enormi aspettative, come riportato sia nel Monarchia che nella Commedia, Federico d’Aragona, con il suo ‘gran rifiuto’ di continuare la battaglia per l’autonomia della penisola dai guelfi e dagli angioini, avrebbe dunque suggellato la fine di ogni speranza politica da parte del Poeta.
Per questo, il Poeta non esita a formulare un bilancio particolarmente duro nei confronti dell’ultimo esponente della casata aragonese menzionato nel Poema.