«Il regime dei talebani? “Roba da Medioevo”. Le posizioni proibizioniste sull’aborto o la vicenda del Ddl Zan? Medievali. Perfino la frase dello storico Alessandro Barbero sulle donne, che tanto ha scatenato le polemiche delle ultime settimane, sarebbe, a detta dei giornalisti, medievale. E si capisce, Barbero d’altronde è pur sempre uno storico del medioevo». È un elenco lunghissimo e raccontato con ironia quello che narra Francesco Violante (foto sotto), docente di Storia medievale dell’Università degli studi di Bari. Mai come in questi mesi il Medioevo è stato al centro degli interessi del giornalismo italiano. Violante quasi ogni giorno denuncia sui social un nuovo caso di titolo di giornale in cui viene tirata in ballo l’età di mezzo.
«Si tratta di un fenomeno intellettuale ben conosciuto e oggetto ormai di ricerca scientifica, spiega Violante. È il medievalismo. Cioè l’uso, la ricezione e la rappresentazione post-medievale di ciò che identifichiamo come “medioevo”, come sostiene Tommaso di Carpegna Falconieri. È una disciplina che nasce nel mondo anglosassone, ma oggi questi studi sono fiorenti anche in Italia: a Roma esiste ad esempio un Centro studi e ricerche ad essi dedicato, incardinato nell’Istituto storico italiano per il Medioevo. Abbiamo presentato recentemente al Bifest un numero monografico della rivista «Bianco e Nero» tutto dedicato a “Cinema e medioevo”. Tuttavia è importante ricordare, per lo sviluppo di questa disciplina, una rivista scientifica nata a Bari nel 1976, «Quaderni medievali», che aveva una rubrica davvero all’avanguardia, dedicata appunto a “L’altro medioevo”».
Cosa è medievale? «“Medioevo”, prima di tutto, è un’espressione che ha la sua genesi tra Quattro e Seicento. Le persone che vivevano in quell’epoca non si definivano certo medievali. Piuttosto, si percepivano come “moderni”, nuovi rispetto ad un passato del quale pure si sentivano in parte eredi. È l’età moderna a marcare una differenza rispetto al passato recente e a quello più remoto, e così nasce la classica tripartizione: antichità, medioevo, modernità. Ogni atto di periodizzazione tuttavia non è un atto neutro, oggettivo. È un’operazione filosofica. I suoi criteri rispecchiano il modo di pensare e di interpretare la storia di chi la propone».
Tanto è vero che ancora oggi è oggetto di dibattito la durata stessa del medioevo, quale possa essere considerato l’inizio di questa età e quando sarebbe finita. «La prima periodizzazione “manualistica” del Medioevo andava da Costantino sino alla conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi. Poi è nata la più nota suddivisione, quella secondo la quale il medioevo sarebbe iniziato con la caduta dell’Impero romano d’Occidente e sarebbe terminato con la scoperta dell’America, talvolta criticata perché utilizza in modo incoerente vari criteri di interpretazione. L’età di mezzo inizierebbe con un evento politico-istituzionale, come la fine dell’impero d’Occidente, e finirebbe con un episodio storico di tipo completamente diverso».
Continua il professore: «Così sono stati proposti altri elementi, come l’invenzione della stampa o la Riforma di Lutero, che rompe l’unità del cattolicesimo, per identificare l’inizio della modernità. C’è chi come Le Goff ha proposto, su base economico-sociale, la tesi di un lungo medioevo ricompreso in un’ancora più ampia età preindustriale. C’è poca differenza, insomma, tra un uomo che viveva lavorando la terra nel Seicento e il suo omologo di cinque o più secoli prima, mentre c’è un vistoso cambiamento solo un secolo e mezzo dopo, grazie all’industrializzazione. Infine c’è stato chi, come Pirenne, ha visto nella rottura dell’unità romana del Mediterraneo e nell’affermazione dell’Islam il vero inizio del medioevo».
Un’età lunghissima, in cui si possono rintracciare ulteriori criteri periodizzanti: «Sì, parliamo di mille anni. Ed effettivamente anche la divisione interna non è unanime. Noi siamo abituati a dividere il medioevo in alto e basso, prendendo come spartiacque il secolo XI. Inglesi e tedeschi preferiscono invece una tripartizione: l’alto medioevo fino al X secolo dopo Cristo; il pieno medioevo, o medioevo centrale, dei secoli XI e XIII; infine il basso/tardo medioevo che corrisponde al Trecento e al Quattrocento. In tempi relativamente recenti è stata poi costruita una nuova categoria storiografica, la tarda antichità, tra i secoli III/IV e VII dopo Cristo, che erode un po’ di anni al tradizionale alto medioevo».
Un’epoca però che non coinvolge il mondo intero. «Certo, perché il medioevo attraversa un tempo lunghissimo, ma abita anche un preciso spazio geografico. È una vicenda europea, non ha corrispondenze in Giappone, in Cina o nelle Americhe, se non attraverso la lente deformante dello sguardo eurocentrico. Per definire la storia di queste civiltà dobbiamo usare altri criteri di riferimento».
Intanto il medioevo è sempre sulle nostre labbra. «Il medioevo è un alibi, positivo o negativo. Lo prendiamo come modello, oppure vi collochiamo e releghiamo tutto ciò che non vorremmo essere. Chi fa quest’ultima operazione considera il medioevo un’epoca barbara, ignorante, violenta, superstiziosa, misogina, dove il potere è del tutto arbitrario. Così per allontanare da noi ciò che non ci piace della società e della contemporaneità, lo definiamo medievale, un retaggio di un’epoca buia e lontana, con la quale abbiamo ormai tagliato i ponti. Questo però non ci permette di analizzare le vere cause di certi problemi e ammettere che essi fanno parte del presente: ci deresponsabilizza. Prendiamo l’esempio dei talebani in Afghanistan: essi sono sicuramente un prodotto della modernità, non del medioevo».
Esiste invece un medievalismo positivo? «Certo – riprende il docente –, l’altrove rappresentato dal medioevo può essere anche desiderabile, cortese, cavalleresco, ricco di valori di cui potremmo rimpiangere la scomparsa nel mondo contemporaneo. Padre Agostino Gemelli aveva fatto del medievalismo un programma politico nella Chiesa novecentesca, ad esempio. Oppure si prenda il medioevo nel fantasy. Si tratta del simulacro di un’epoca in cui facciamo giocare le nostre tensioni attuali. Si guardi a Tolkien, ad esempio, che, tra le altre cose e per fare un richiamo attuale, in molti luoghi delle sue opere trasfigura letterariamente il problema ecologico posto dagli effetti dell’industrializzazione delle campagne. Spesso inoltre si ripesca nel medioevo per ragioni politiche e ideologiche: pensiamo all’immagine di Carlo magno padre dell’Europa e al dibattito sulle sue radici cristiane, o ancora al richiamo a episodi e figure della storia medievale nei conflitti balcanici degli anni Novanta».
Ironicamente verrebbe da pensare che, per liberarci di questo continuo fraintendimento storico che avvolge da sempre il termine “medioevo”, bisogna smettere di chiamare così quel periodo. «Non è neanche una provocazione così assurda. Massimo Montanari, autorevole storico bolognese, alcuni anni fa ha coordinato la redazione di un agile manuale universitario di storia medievale in cui il termine non compare mai, se non nell’ultimo capitolo, dove si dipana il racconto del medievalismo, dell’uso postumo del medioevo. Dobbiamo comprendere che il medioevo in realtà non esiste, se non come un concetto storiografico. Continuiamo pure ad usare l’espressione, a patto di avere questa consapevolezza».
Foto in evidenza, particolare del Duomo di Molfetta (Bari)
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