Non è possibile comprendere a pieno Nichi Vendola dividendolo per “compartimenti stagni”, come dice lui. L’attivista che lottava fin da giovane per i diritti civili e sociali. L’intellettuale alla ricerca di strade nuove per il progressismo, le minoranze, il Mezzogiorno. Il leader politico acclamato in tutta Italia, dopo aver tinto di rosso nel 2005 una regione che veniva definita irrispettosamente l’Emilia-nera. Il presidente della Puglia negli anni del rilancio e della rinascita, al di là delle critiche che si possono muovere all’ex governatore. E infine il poeta, immerso nella sua passione per la parola che si fa bellezza. Sono aspetti che si tengono uniti e si contaminano a vicenda, in una delle figure, comunque la si pensi, più importanti per il Sud e la sinistra italiana degli ultimi anni.
Ventuno ha intervistato Vendola, partendo dalle poesie del suo ultimo libro: “Patrie”. Una raccolta che già dal titolo rivela un dialogo serrato con i temi dell’attualità politica.
Il titolo del suo libro in tempi di sovranismo, di riemersione dei nazionalismi, assume un significato forte. Lei declina “la patria” al plurale, forse non è un caso?
«Nel nome della patria sono stati commessi i crimini più atroci contro l’umanità, sono state edificate vere e proprie industrie dello sterminio, programmati genocidi. La patria che si veste di nazionalismo si ubriaca di retorica, coltiva la sacralità del confine, evoca il mito della stirpe, si ciba di pregiudizi contro le altre patrie e i popoli che le abitano. Mi ha molto angosciato il ritorno di vecchi fantasmi del passato, di quei patriottismi farlocchi e velenosi che replicano il copione lercio della xenofobia e del razzismo, che invocano il primato della Nazione (scritta con la maiuscola), che mirano a rompere l’unità del genere umano. Io amo l’idea di una patria molteplice, multiversa, plurale. Una patria di patrie, ognuna delle quali offre a tutte le altre il dono della propria singolarità, della propria diversità».
Esiste dunque un modo, alternativo alla narrazione leghista e federalista, di riscoprire il legame con il territorio, senza che questo rappresenti un limite, un confine?
«Ho cercato di lavorare su un progetto di governo della mia regione fondato su una narrazione forte delle tradizioni pugliesi di apertura, di accoglienza, di curiosità per ciò che viveva e operava dall’altra parte del mare. Abbiamo compiuto scelte di grande innovazione in tutti i settori dell’amministrazione, abbiamo allargato l’area della protezione sociale, abbiamo puntato molte carte sul talento giovanile e sulla potenza civilizzatrice e anche economica della cultura, abbiamo parlato della nostra ricchezza produttiva e della nostra bellezza, sentendoci sud d’Europa e cuore del Mediterraneo. Abbiamo sviluppato un senso di appartenenza regionale che forse per la prima volta ha consentito l’evocazione dell’orgoglio di essere pugliesi, ma era il contrario di un leghismo sudista o di una supponenza di primati territoriali. Noi abbiamo rifiutato sia la deriva della nevrosi identitaria, sia quella di una caricatura folcloristica della nostra multiforme realtà. E a me è sempre piaciuto declinare al plurale anche la parola Puglia: appunto, le Puglie».
Parola, poesia, politica. Durante una presentazione del suo libro, lei raccontava come queste tre “p” abbiano dialogato tra di loro lungo tutta la sua esistenza. Come dalla passione per l’una, sia scaturita l’esperienza dell’altra. Come dialogano tra loro poesia e politica? Con quali parole è possibile tessere un verso di poesia, ma anche un progetto di buona politica?
«Attenzione, non si tratta di incastrarle in una deontologia o in una programmazione: queste parole si incontrano innanzitutto per la loro natura piuttosto che per le nostre intenzioni. Cantare la pioggia del pineto per fuggire dall’angoscia della società di massa; celebrare la velocità o la forza delle macchine e magari l’igiene della guerra; sospirare o cavalcare d’amore; tormentare le tombe con l’inquietudine dei vivi; contemplare le nuvole o la morte; essere nel sudore dell’orgasmo o nel candore della preghiera; inneggiare a un condottiero o abbatterne il monumento; stare nella mischia o tenersi al riparo nella clausura dell’eremo o della torre d’avorio; raccogliere gli ossi di seppia oppure le ossa del milite ignoto; suonare la cetra ignorando il frastuono della storia, oppure appendere la cetra alle fronde dei salici. Sono tutti gesti politici, nel senso che la parola, ogni parola, la estraiamo dal nostro repertorio emozionale, sentimentale, ideologico. Siamo figli della storia del contesto in cui siamo nati, quella famiglia, quel quartiere, quella scuola, quell’epoca. Il nostro vocabolario si è formato in quel punto, è quel magma di senso, di mito, di orecchiato, di introiettato: poi noi scegliamo come stare al mondo, in quale verso e magari con quali versi…»
C’è un esempio illustre, di cui quest’anno ricordiamo i 700 anni dalla morte, e per il quale esperienza politica e poesia sono stati elementi importanti, tanto da essersi fusi nella sua opera più nota. Dante Alighieri (leggi anche l’articolo di Matteo Cazzulani).
«A volte si offre come scontata l’idea che noi esseri umani possiamo dividerci per rubriche. Prendi una accetta e spacca in tanti pezzi Dante Alighieri: l’uomo, il politico, il poeta. Io non riesco a concepire me stesso per compartimenti stagni, tutto quello che faccio attiene alla mia umanità. In verità penso che continui a operare dentro di noi quel pregiudizio crociano contro le compromissioni dell’arte con la storia, o contro le intromissioni della storia nella geografia verginale della creatività artistica. Per me l’unico discrimine importante è il rifiuto della propaganda e del dilettantismo, che sono solo caricature dell’arte. Ma perché posso incantarmi poeticamente alla visione del mare della nostra costa e non posso poeticamente disperarmi per i corpi delle migliaia di naufraghi affogati in quello stesso mare?»
Quest’anno abbiamo ricordato i vent’anni dal G8 di Genova (leggi anche l’articolo di Giuseppe Gabrieli). Lei è l’autore della struggente “Lamento in morte di Carlo Giuliani”, che in quei giorni ha perso la vita. Cosa ha rappresentato per lei quell’episodio?
«Genova per me, e non solo per me, ha rappresentato una ferita che è rimasta aperta. La sospensione della democrazia in quei giorni del luglio 2001; la violenza criminale delle forze del disordine comandate dai potenti che, blindati nella zona rossa, si palesavano come una monarchia planetaria socialmente e ambientalmente irresponsabile; le torture cilene alla Diaz e a Bolzaneto. Tutto questo ha conosciuto processi penali, ma non un vero rendiconto da parte della classe dirigente, non una presa di coscienza nazionale sulla soglia che si era oltrepassata, non una discussione seria su chi e come avesse armato di bullismo fascista gli apparati di uno Stato democratico».
La parola libertà è stata da lei inserita anche nel nome del suo soggetto politico, Sinistra ecologia libertà. Una parola usata sempre di più dalla destra, prima berlusconiana e oggi da quella fascista che cerca di sfruttare il malcontento e che sembra molto radicata nelle piazze dei No Green Pass. Le parole possono tradire e divenire maschere per celare inganni? Come si può smascherarle e riappropriarsene?
«Operando una costante sorveglianza critica dell’uso delle parole. La destra ha sempre associato la libertà alla proprietà, la libertà di possedere. E ha sempre celebrato la libertà individuale come assenza di vincoli sociali. La Thatcher, la lady di ferro della rivoluzione liberista, diceva con chiarezza proprio questo: “La società non esiste, esistono solo gli individui”. In Italia la destra ha invocato la libertà dal controllo di legalità, con le campagne berlusconiane contro la magistratura. Ha reclamato la libertà delle parole, nel momento in cui avvelenava il linguaggio della vita pubblica con i codici del sessismo, del maschilismo, dell’omofobia. Rivendica la libertà di opinione per impedire che vengano stigmatizzati nel codice penale i reati d’odio contro le persone Lgbt. Per coprire chi si sottrae al dovere della solidarietà nella dura lotta contro il Covid, per flirtare con i No Vax e No Green Pass, innalza cori sulla libertà. E infine vedere le bande fasciste, coccolate anche dalla destra istituzionale, ergersi contro quei nazisti dei virologi e contro la dittatura sanitaria, rende solare l’operazione di mistificazione delle parole che viene operata. È una mafia semantica che cerca continuamente di depistare e di derubarci della cosa più preziosa che abbiamo: le parole, il senso delle parole, la cura delle parole».
Con quali parole descriverebbe l’attuale governo? Quale giudizio ha di esso?
«È il governo del commissariamento della politica nel nome dell’emergenza, guidato da quelli che un tempo avremmo chiamato oligarchia, ed è il più politico dei governi visto il suo orientamento nettamente confindustriale. Io ho molto rispetto per Draghi e con tutto il rispetto mi sento da tutt’altra parte rispetto al suo governo. Mi irrita, se posso aggiungere solo un pensierino più polemico, questo reiterare l’argomento del futuro dei giovani per ferire il presente degli anziani. Vorrei che qualcuno mi spiegasse qualche volta quali sono stati i benefici per le giovani generazioni della riforma previdenziale del ministro Fornero».
Che effetto le ha fatto la vicenda del Ddl Zan?
«Un Senato degno dei “Carmina burana”, una scena grottesca e volgare, applaudivano alla bocciatura di una legge che parla di diritti. Davvero una schifezza che rivela le qualità di quel pezzo di Italietta illiberale e oscurantista che per un giorno pensa di festeggiare. Perché loro hanno vinto, ma solo lì dentro, nella cloaca del voto segreto. Ma nella società hanno perso. Perché la domanda di diritti e di protezione della dignità di tutte e tutti è travolgente e seppellirà quei sepolcri imbiancati».
C’è una parola che la spaventa particolarmente?
«Mi spaventano tutte le parole che nominano l’indifferenza, l’assuefazione all’orrore, la banalizzazione del male. Mi terrorizza l’ordinario, normale, burocratico convivere con la disumanità».