Da presidente dell’Urss alla…pizza
A fine anni ’90 ebbe risalto internazionale una pubblicità di una nota catena di pizzerie che si era avvalsa come testimonial di Michail Gorbačëv. Il primo e ultimo presidente dell’Unione Sovietica, l’ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Urss, testimonial di una pizza, secondo il più capitalista dei modelli. Gli altri attori, all’apparire di Gorbačëv, discutevano dei pro e dei contro della sua azione politica e della fine dell’Unione. Il più giovane ottimisticamente parlava di “opportunità” e “libertà”, il più anziano, nostalgico, di “confusione economica” e “instabilità politica”. Poi, ovviamente, la possibilità di degustare la pizza reclamizzata metteva d’accordo tutti.
Sono passati 30 anni dal 26 dicembre 1991, data in cui il Soviet Supremo dell’Urss ratificò la fine dell’Unione. Il giorno precedente Gorbačëv si era dimesso da presidente e la bandiera rossa era stata ammainata per l’ultima volta sulla cupola del Cremlino. Gorbačëv si era dimesso da presidente di uno Stato che di fatto non esisteva più: le repubbliche avevano ad una ad una proclamato la propria sovranità e indipendenza, con una drastica accelerazione dopo il fallito colpo di Stato di agosto, e l’8 dicembre Boris El’cin, Leonid Kravčuk e Stanislaŭ Šuškevič, presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, s’erano incontrati in una tenuta nella foresta di Belovežskaja pušča, stabilendo la fine dell’Urss e l’istituzione, al suo posto, della blanda Comunità degli Stati Indipendenti.
Superfluo sottolineare l’importanza epocale di quegli avvenimenti: veniva a scomparire il primo stato socialista della storia, servito a modello per tutte le altre cosiddette democrazie popolari, ed inoltre scompariva quell’enorme Stato multinazionale che era sorto sullo spazio dell’antico Impero Russo. Note le implicazioni a livello internazionale, con la fine del mondo bipolare e l’espansione ad est dell’Unione Europea e, soprattutto, della Nato.
Alcune delle questioni poste dai personaggi della pubblicità della pizza sono però ancora discusse. I russi in particolare non sembrano avere un particolare buon ricordo dell’epoca della transizione tra Gorbačëv e El’cin, rimembrata come un periodo di grande difficoltà economica e caos politico. Non per nulla l’epoca brežneviana e l’avvento della presidenza Putin sembrano ricordate con maggior favore, perché epoche di stabilità e ordine sociale ed economico.
La memoria dell’Urss oggi
Il 24 dicembre scorso il Levada Centr ha pubblicato un sondaggio (qui il link) secondo cui il 63% dei russi si rammarica per la fine dell’Urss (contro il 28%), dato invariato rispetto ad un’analoga indagine svolta nel 2018. Il dato di coloro che considerano negativamente il crollo dell’Unione aumenta proporzionalmente all’età e risulta minoritario (24% contro 54%) solo nella fascia più giovane (18-24 anni).
Tra le ragioni addotte alla nostalgia per l’Urss, il primo posto vede la “fine del sistema economico unificato” (49%), seguito da “le persone hanno perso il sentimento di appartenenza ad un grande paese” (46%) e da “è cresciuta la sfiducia reciproca” (36%).
Secondo un sondaggio pubblicato lo scorso agosto, ripreso dall’agenzia Tass (qui il link), in Ucraina i rapporti sono invertiti: il 32% (comunque un ucraino su tre) lamenta la fine dell’Urss, contro il 61%, con sensibili differenze territoriali: il livello minimo di nostalgia per l’Urss è nella regione di L’viv (10%), mentre supera il 50% nelle aree delle regioni di Donec’k e Lugansk ancora sotto il controllo di Kiev. In questo caso però si nota un capovolgimento rispetto a un sondaggio del 2013, quindi precedente ai fatti di Evro-majdan, dove il 56% degli intervistati, contro il 23%, aveva risposto che il crollo dell’Unione Sovietica aveva apportato maggior danno che beneficio al proprio paese (qui il link).
Il sondaggio del 2013 aveva preso in considerazione anche altre repubbliche. Assieme a Russia e Ucraina il crollo dell’Urss aveva portato maggiori danni che benefici per i cittadini di Armenia, Kirghizistan, Tagikistan, Moldavia, Bielorussia; d’opinione opposta gli abitanti di Azerbaigian, Kazakistan, Turkemenistan e, seppur con scarto minimo, Georgia (il sondaggio non era stato effettuato in Uzbekistan e nelle repubbliche baltiche).
L’atteggiamento ufficiale dei governi di Russia e Ucraina di oggi è esemplificativo di due atteggiamenti contrapposti. Ricordiamo come la Russia non proclamò la sua “indipendenza”, ma solo la sua “sovranità”, diventando così di fatto Stato successore dell’Urss (e quindi erede del seggio al consiglio di sicurezza dell’Onu). Il presidente Vladimir Putin ha definito il crollo dell’Urss “il più grande disastro geopolitico del ventesimo secolo” e si è spesso rifatto in maniera simbolica all’Unione: sua per esempio l’idea di reintrodurre già all’inizio della sua presidenza, nel 2000, l’inno nazionale dell’Urss, pur con testo modificato, come inno della Federazione Russa. Più modestamente, ma comunque in maniera simbolicamente significativa, è notizia della settimana scorsa che la nazionale di hockey ha giocato con le maglie dell’Urss, in omaggio alle vittorie olimpiche del passato.
Al contrario in Ucraina il governo che è succeduto al rovesciamento del presidente Viktor Janukovič nel 2014, ha avviato un’opera capillare di “decomunistizzazione”, che si è concretizzata anche in una furia iconoclasta contro monumenti e vestigia d’epoca sovietica.
Un’eredità, una storia comune, che viene percepita e declinata in maniera diversa a seconda della volontà politica e all’identità delle compagini statali che all’Urss sono succedute e, si aggiunga, al loro rapporto con la Russia.
Il problema delle nazionalità: l’Urss “prigione dei popoli” o patria “dell’amicizia tra i popoli”?
L’eredità dell’Unione Sovietica è quindi tutt’oggi oggetto di contrapposti sentimenti e ricopre una valenza simbolica, che si incrocia, ancora in questi tempi, con la questione dell’indipendenza e dell’identità nazionale per le repubbliche che ne facevano parte.
La Russia post-rivoluzionaria, che riuscì a mantenere uniti i territori del fu Impero Russo, con l’eccezione di quelli più occidentali, identificò una peculiare forma di federalismo etno-territoriale come sistema più congruo a mantenere uniti i diversi popoli. Teoricamente si sanciva l’eguaglianza tra tutti i popoli, il diritto di ogni nazionalità ad avere la propria compagine territoriale, e il diritto alla secessione di ogni repubblica. Per la prima volta nella storia alcuni popoli ebbero compagini territoriali a loro intitolate (si pensi per esempio alle popolazioni precedentemente nomadi dell’Asia centrale). Rispetto all’Impero Russo, che era stato definito “prigione dei popoli”, la nuova Unione veniva dipinta come costruita all’insegna dell’ “amicizia tra i popoli”.
L’elemento russo rimase comunque predominante, anche se si susseguirono fasi di maggiore o minore russificazione: negli anni ’20 la politica di korenizacija (da koren’, “radice”), spinse effettivamente alla diffusione delle lingue nazionali ed all’incremento dei quadri non russi negli organi del potere; un nuovo impulso alla russificazione ci fu in epoca staliniana, a partire dagli anni ’30 e specialmente nel periodo bellico. All’epoca di Chrušëv fu lanciata una nuova parola d’ordine, slijanie, “fusione” tra i diversi gruppi, indirizzata in particolare alle tre nazioni slave, nucleo del “popolo sovietico”.
Comunque, nonostante i diversi atteggiamenti riscontrabili nelle varie fasi storiche, il sistema sovietico non attuò mai alcuna politica sistematica di distruzione della nazionalità. Secondo il sociologo Rogers Brubaker*, nulla avrebbe impedito al regime di abolire le repubbliche, il federalismo e la categoria della nazionalità. Così come esso avrebbe potuto “russificare” il sistema scolastico o cancellare le élite periferiche senza particolari difficoltà. Ciò però non avvenne ed anzi, contemporaneamente alla lotta contro il nazionalismo, i concetti di nazione e nazionalità vennero consolidati, tanto che fu resa “istituzionale l’esistenza di molteplici nazioni e nazionalità” per farne i costituenti base dello Stato e della cittadinanza.
All’epoca delle riforme gorbacioviane, il processo politico di perestrojka e glasnost’, con la conseguente progressiva liberalizzazione del dibattito pubblico, ripropose con forza il tema dell’autodeterminazione delle repubbliche e dei popoli dell’Urss. Tema in realtà affrontato con poca incisività dal Cremlino dal punto di vista istituzionale. Intanto l’elezione nel 1989 del nuovo Congresso dei Deputati del Popolo dell’Urss, nuovo organo parlamentare introdotto con la riforma costituzionale del 1988, vide per la prima volta l’elezione di membri d’opposizione.
Successivamente, mentre tensioni nazionali si infiammavano in varie parti del paese, nel corso delle elezioni libere del 1990 nelle repubbliche baltiche, in Moldavia, in Armenia e in Georgia, vinsero le forze d’alternativa. Queste repubbliche furono le stesse che boicottarono il referendum sull’unione del 17 marzo 1991, che vide invece l’affermazione netta del sostegno al mantenimento della federazione, seppur riformata, con il 77,85% dei consensi. Sulla base di questi risultati Gorbačëv annunciò un nuovo trattato dell’Unione che sarebbe stato firmato in agosto. Questo fu però impedito dal colpo di Stato che fu tentato ai danni del presidente il 18 agosto, quando il potere venne passato nelle mani del vicepresidente Gennadij Janaev e di un Comitato Statale per lo Stato d’Emergenza, formato da membri del gabinetto di Gorbačëv. Il colpo di Stato fu però destinato a fallire: vi fu una mobilitazione popolare, mancò l’appoggio dell’esercito e ferma fu la risposta della nuova classe dirigente: famose le immagini di Boris El’cin che arringa la folla in piedi su un carro armato e che accrebbe grandemente la sua popolarità.
L’effetto del colpo di Stato fu dunque assolutamente contrario a quello auspicato dai promotori: non solo non si ristabilì un’unione più centralizzata, ma non si firmò nemmeno il nuovo trattato per l’unione riformata che proponeva Gorbačëv. Il processo era andato troppo oltre e al tentato putsch seguirono a cascata le dichiarazioni di indipendenza delle repubbliche, a partire dall’Ucraina, già il 24 agosto, per finire con il Kazakistan il 16 dicembre. In Ucraina l’indipendenza fu confermata da un referendum il 1° dicembre che, ribaltando il risultato di marzo, vide nettissima l’affermazione dell’opzione indipendentista.
La Comunità degli Stati Indipendenti: pallida ombra di ciò che fu l’Urss
La scomparsa dell’Urss ha lasciato anche un vuoto geopolitico. La Comunità degli Stati Indipendenti è un’organizzazione nata per dividere, anziché per unire, e si è dimostrata del tutto insufficiente, come soggetto internazionale, nel prendere il posto dell’Urss, anche per le divisioni e i conflitti che sono intercorsi tra i vari paesi e su cui ora è impossibile soffermarci. Gli Stati baltici alla Csi non hanno mai aderito e si sono diretti decisamente verso l’integrazione nell’Unione Europea e nella Nato (2004), partecipando a quel “galoppo” verso est del Patto Atlantico, interessato quanto prima a sostituirsi alla Russia nell’area già di sua influenza. La Georgia ha abbandonato la Csi nel 2008 in seguito al conflitto con la Russia, e l’Ucraina, paese profondamente diviso, dopo aver alternato governi filo-russi e filo-occidentali, con la vittoria di questi ultimi con i fatti di Evro-majdan, ha lasciato la Comunità nel 2018. Le varie repubbliche nate dalle ceneri dell’Unione Sovietica hanno trovato quindi compagini internazionali più adeguate ai nuovi posizionamenti internazionali.
Dal punto di vista della difesa militare nel 1992, in opposizione alla Nato, nacque l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, che attualmente comprende sei repubbliche: Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Nel 2014 Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan diedero vita all’Unione Economica Eurasiatica. Senza la Russia, ed anzi in sua opposizione, Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldavia fondarono nel 2001 il Guam – Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo economico. Superando i confini dell’ex Urss, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan hanno dato vita, assieme alla Cina, al Gruppo di Shanghai (1996), poi divenuto Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai con l’adesione dell’Uzbekistan (2001).
Infine le repubbliche centroasiatiche, guardando al mondo islamico, hanno aderito nel 1992 all’Organizzazione di cooperazione economica, assieme ad altri paesi musulmani (Iran, Pakistan, Turchia ed Afghanistan). Nuove organizzazioni che incrociano e attraversano i confini di quella che fu l’Urss, portatrici di diversi e spesso opposti interessi e prospettive geopolitiche.
Cosa resta?
A trent’anni dal 1991 dell’Urss cosa resta? Non resta il socialismo, sconfitto ancora prima dello scioglimento dell’Unione dalla crisi economica degli anni ’80 e dalle riforme economiche a cui seguirono la privatizzazione e la depredazione delle risorse dello Stato, con la conseguente formazione delle oligarchie economiche. Non resta la superpotenza internazionale, perché la Csi non lo fu mai e mai poté e volle esserlo ed anzi le varie repubbliche hanno battuto strade internazionali diverse e spesso in conflitto.
Non resta lo Stato federale multinazionale, che rimane in parte nella Russia, federazione che, tra i suoi Soggetti, comprende pur sempre 22 repubbliche nazionali. Rimane ovviamente la memoria, memoria che per alcuni è di un periodo di coabitazione pacifica tra popoli, per altri di oppressione nazionale; di uguaglianza e sicurezza economica e sociale o di oppressione politica e mancanza di opportunità; resta soprattutto in Russia l’idea di Urss come grande potenza a guida russa (la “Russia storica”, l’ha definita recentemente Vladimir Putin) a cui si guarda come a uno spazio su cui esercitare egemonia politica.
Il che da un lato è comprensibile reazione all’espansione della Nato, ma dall’altro evidenzia anche quel rischio di “sciovinismo grande-russo” denunciato già da Lenin agli inizi del ‘900**.
Quello che è certo è che il fatto che a trent’anni dalla caduta dell’Urss se ne parli ancora, si indaghi e si discuta, dimostra l’importanza che l’Unione Sovietica, primo stato socialista della storia e superpotenza globale, ha avuto per la storia dell’umanità nel secolo scorso.
* Rogers Brubaker, I nazionalismi nell’Europa contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1998, p.29.
** Cfr. Vladimir I. Lenin, Sulla questione delle nazionalità o della “autonomizzazione”, in Il Diario dei segretari di Lenin, pubblicato in appendice al volume 42 delle Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1971.
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