Risponde al telefono dalla Sicilia, dove si trova per lavoro («con la Croce Rossa»). Soumaila Diawara vive a Roma, ma la sua storia inizia in Mali, il paese africano da cui è stato costretto a fuggire alcuni anni fa («e che altrimenti non avrei lasciato»). Laureato in Scienze giuridiche, con una specializzazione in Diritto Privato internazionale, Diawara è un esperto di informatica. Che conosce bene la comunicazione, soprattutto politica.
La politica, appunto. La sua grande passione, sin da giovane impegnato nei movimenti studenteschi, nel suo paese natale. Ma che l’ha portato a dover espatriare, accusato ingiustamente di un’aggressione al presidente dell’Assemblea legislativa maliana solo perché militante in un partito di opposizione. Fieramente di sinistra. E convinto che senza una vera indipendenza l’Africa resterà il continente più ricco di risorse ma allo stesso tempo più povero per le persone, a causa dello sfruttamento che la tiene soggiogata a paesi occidentali e presidenti corrotti.
Quello che ha vissuto è difficilmente spiegabile con le parole. Eppure lui ci è riuscito con un libro, Le cicatrici del porto sicuro – Il diario di un sopravvissuto, che a febbraio presenterà in varie città italiane. Dalla minaccia alla sua vita alla decisione di emigrare, passando per violenza, fame, un naufragio e la prigionia. Sempre in balia di qualcuno o qualcosa, dai trafficanti alle onde del Mediterraneo. Fino all’approdo in Italia, dove oggi è un rifugiato politico.
Partiamo dal Mali. 2012. Costretto a lasciare il paese. Con la “fortuna” di essere stato aiutato da un ex compagno di classe. Altrimenti cosa sarebbe successo?
«Probabilmente mi avrebbero ucciso o sarei ancora in carcere».
Dei compagni di partito accusati che ne è stato?
«Alcuni sono ancora in carcere, altri morti».
Poi una traversata lunga due anni, condita da violenza, fame, malattie, la prigionia, un naufragio, donne violentate e costrette a prostituirsi. Quali ricordi si possono avere?
«Sono momenti drammatici che segnano una persona. A volte mi domando fino a che punto può spingersi l’essere umano con la crudeltà e per il denaro».
Lei ha attraversato quattro paesi prima di arrivare in Italia. Cosa direbbe a chi è in Africa e sta pensando di partire?
«Se le persone potessero non rischierebbero la propria vita. Non essendoci prospettive tanti cercano fortuna anche a costo della vita. Lì si può morire anche per una malattia lieve, visto che non ci sono soldi per essere curati».
Di chi sono le responsabilità?
«Delle ingerenze straniere, delle guerre pilotate, delle dittature…»
Perché?
«Si mandano miliardi in Africa ma questi soldi finiscono nelle banche occidentali in cambio delle armi che servono alle dittature. Si parla di democrazia ma nello stesso tempo si vendono le armi a presidenti autoproclamati, che opprimono i popoli e provocano guerre per le risorse africane».
Una situazione che viene da lontano…
«In passato tutti i presidenti che si sono opposti per garantire una vita migliore ai propri popoli sono stati ammazzati. L’abbiamo visto dopo le indipendenze degli stati africani: da Patrice Lumumba in Congo a Modibo Keita in Mali, da Thomas Sankara in Burkina Faso a Samora Michel in Mozambico o Amílcar Cabral in Guinea Bissau. Il popolo africano è abbastanza maturo per intraprendere il suo cammino, se finissero le ingerenze finirebbero anche molti problemi».
Assistiamo spesso a colpi di stato in Africa.
«La democrazia non si esporta con le armi, sono sempre i più deboli a subire le conseguenze delle bombe. I soldi potrebbero essere spesi per scuole, ospedali o per sviluppare lavoro e agricoltura. Non ci sarà mai pace finché ci saranno dei criminali organizzati che creano il caos. E non finirà l’immigrazione».
Lei ha rischiato più volte la vita. Compreso quando ha deciso di nascondere un telefono dentro una scarpa, prima di imbarcarsi su un gommone. Perché l’ha fatto?
«Per testimoniare quello che succedeva, volevo documentare quella disumanità. Così funziona tuttora purtroppo».
Lei ha girato il mondo con il partito Sadi (Solidarité Africaine pour la Démocratie et l’Indépendance). Conserva la sua passione per la politica?
«Sì, credo sia l’unica via per cambiare positivamente il mondo. Io credo ancora alla politica, ma alla vera politica, quella che serve ad aiutare i più disagiati, i più deboli. La politica non è egocentrismo».
Si definisce di sinistra?
«Sì, certo».
Oltre a raccontare quello che succede scrivendo, le piacerebbe fare politica ancora più attivamente, magari in Italia?
«Sì, mi piacerebbe. Ma devo ancora capire come».
Spesso, nel dibattito politico, si parla di immigrazione guardando solo alla parte finale del fenomeno. Addirittura alcuni parlano di “invasione”: cosa bisogna rispondere?
«Quali sono le cause? Questa è la prima cosa. Un fenomeno va studiato innanzitutto dalle cause. Chi dice così specula sulla pelle delle persone che soffrono».
L’Africa è stata un terreno di esperimenti, politici ed economici per esempio. Pensiamo al neoliberismo. Ma a gravare sulla situazione africana pesano anche colonialismo e neocolonialismo. La Francia ha avuto un ruolo notevole, anche in Mali. Concretamente qual è la presenza francese oggi?
«È stata sempre disastrosa e continua a esserlo, l’abbiamo visto in Libia. L’esercito francese è stato cacciato dal Mali dopo l’indipendenza, ma con la scusa del terrorismo ha trovato il modo per invaderlo nuovamente. Oggi la Francia ha 45 basi militari in Africa. Ha più soldati dispiegati in Africa che in territorio francese. Poi c’è la moneta coloniale, il franco Cfa, che è uno strumento per sfruttare il continente africano. Ma ci sono tanti altri aspetti».
Quindi l’indipendenza degli stati africani è solo di facciata?
«Sì, chi ha provato a intraprendere una vera indipendenza è stato fatto fuori».
A proposito del franco Cfa, si parla di una nuova moneta proprio per superarlo: Eco. Cosa ne pensa?
«È lo stesso sistema, cambia solo il nome ma rimane lo sfruttamento. Tutti sanno che è un problema. Perché sono stati uccisi tutti quelli che si opponevano a questa moneta? Il tema è serio e andrebbe affrontato».
L’Africa è il continente più ricco di risorse ma il più povero per la maggioranza delle persone. Perché?
«A causa dello sfruttamento. Nessun paese africano è povero. Se le risorse venissero divise in maniera equa e adeguata, non parleremmo di povertà in Africa».
Ora c’è un nuovo problema che riguarda tutto il mondo. È il Covid. Com’è la situazione?
«Solo il 2% della popolazione africana, su un miliardo e mezzo di persone, è stato vaccinato. Finché non capiremo che la pandemia è una questione mondiale non ne usciremo. Dobbiamo dare a tutti la possibilità di accedere al vaccino. In Europa abbiamo la terza dose, in Africa tanti non hanno avuto ancora la prima. Avremmo potuto coprire tutta l’Africa e tutta l’Europa».
Sta presentando il suo libro Le cicatrici del porto sicuro?
«A febbraio lo presenterò in giro per l’Italia, facendo 13 tappe. Il ricavato andrà a un piccolo ospedale in Mali, nel villaggio di Kolondieba».