A cento anni dalla sua nascita, ripubblichiamo questo articolo su Pier Paolo Pasolini. Un aspetto particolare e poco noto dello scrittore bolognese, riguardante il suo ultimo incontro pubblico, nel Leccese. Con alcune foto originali dal grande valore storico.
L’ultimo incontro pubblico di Pier Paolo Pasolini si tiene il 21 ottobre del 1975 a Calimera, un paese della provincia di Lecce. Lo scrittore di origine friulana, ma nato a Bologna il 5 marzo del 1922, era arrivato nel comune salentino per conoscere la particolarità linguistica che lo contraddistingue ancora oggi, la lingua grika. Come si evince dal nome, Calimera ha origini greche, trovandosi a pochi chilometri dall’Adriatico e dal punto più orientale d’Italia. Il paese fa parte di un’isola linguistica unica nella penisola. Un dialetto simile si ritrova nella Bovesia, in provincia di Reggio Calabria, in cui è diffuso un dialetto greco risalente alle colonie della Magna Grecia.
Pasolini, il dialetto e le minoranze linguistiche
In Italia sono svariate le isole linguistiche, cioè quei luoghi in cui si parla una lingua differente rispetto al territorio circostante. E allo stesso modo i dialetti regionali o locali hanno rappresentato una fortissima forma identitaria e uno dei maggiori campi di studio di Pasolini. Ma come si intrecciano le storie dello scrittore e regista con quella del paese della Grecìa salentina?
L’intellettuale venne invitato, insieme a due illustri studiosi delle culture popolari, Antonio Piromalli e Gustavo Buratti, a tenere un seminario nell’ambito del progetto ‘Dialetto e scuola’. In quell’occasione propose alcuni appunti sul Volgar’eloquio per i docenti del liceo classico “Giuseppe Palmieri” di Lecce. Fra i presenti c’erano anche due professori del paese griko, Rocco Aprile e Luigi Tommasi. I due, a fine incontro, convinsero Pasolini a un fuori programma per fargli ascoltare dal vivo la particolarità della loro lingua.
Le origini del griko
Il dibattito fra gli studiosi sulle origini del griko è ancora aperto: «Ci sono tre teorie differenti sull’origine di questa lingua. Giuseppe Morosi, linguista di fine Ottocento, lo riconduce alla dominazione bizantina. Mentre il glottologo tedesco Gerhard Rohlfs lo fa risalire al periodo precedente della Magna Grecia», spiega Marcello Aprile, docente di linguistica all’università del Salento. «La terza ipotesi, più recente, è quella di Franco Fanciullo che crede più a una sintesi fra i due processi. I greci avevano già diffuso la loro lingua nell’area della Grecìa salentina. E nel periodo bizantino si è avuto un rafforzamento».
Il problema sulla sua permanenza inizia a esserci già nel Seicento, quando il griko perde la scrittura e inizia a essere tramandato, di generazione in generazione, solo per via orale. Tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, lo scrittore ellenista calimerese, Vito Domenico Palumbo, prova a dare dignità letteraria alla lingua di minoranza. Quella stessa che parlavano i suoi compaesani nei campi e durante la produzione di carboni. Erano quelli i mestieri più diffusi fra le classi sociali più basse nell’area. Fu così che avvenne la trascrizione del griko con i caratteri latini. Il tutto mentre il dialetto greco subiva delle continue contaminazioni dal salentino romanzo, il dialetto che si parlava a Lecce, nel capoluogo, diverso da quello dell’area grika.
Tenere viva la lingua
Allo stato attuale la Grecìa salentina è composta da appena sette paesi nel cuore della provincia di Lecce che vanno a formare quest’isola linguistica. Oltre al già citato Calimera, ne fanno parte anche Martano, Martignano, Zollino, Castrignano de’ greci, Corigliano d’Otranto e Sternatia. Soleto e Melpignano, quest’ultimo noto per il festival popolare della Notte della taranta, non conservano più alcun parlante griko. «Il problema principale è proprio quello di mantenere viva la lingua della minoranza linguistica, di usarla nel quotidiano e non di imporla dall’alto», avverte Aprile. I parlanti griko sono ridotti a poche migliaia in dei centri che, sommati, non arrivano a 30mila abitanti.
La lingua degli ultimi
La diffusione maggiore è nella popolazione anziana in quanto, a un certo punto, non si è più tramandata. Ciò è dovuto al fatto che a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta ci fu un rifiuto nei confronti di quella che era la lingua madre: «Il griko aveva subito degli influssi sia dal dialetto romanzo che dallo stesso italiano ma rappresentava anche un passato di povertà e di umiliazione». Parlare griko equivaleva ad avere addosso una etichetta sulle proprie origini contadine. Non era accettato a scuola e nelle case i genitori smisero di rivolgersi ai propri figli in quella lingua sforzandosi di parlare in un italiano stentato. Ignari, o non pienamente coscienti, di quale patrimonio culturale avrebbero rischiato di perdere.
La fine di una lingua
Il fascismo, con le sue teorie sull’italianizzazione del popolo e il divieto di utilizzo dei dialetti ci aveva messo del suo. Ma è nel dopoguerra che si ha il punto di rottura. Ancora oggi esistono famiglie in cui il primogenito è un parlante griko mentre il secondo non riesce a esprimersi in quella lingua avendo avuto come insegnamento soltanto l’italiano. Ciò fa sì che il destino del griko sia segnato. Come nel caso di tutte quelle lingue che muoiono se non le si utilizza quotidianamente per chiedere un’informazione o per bere il caffè al bar. «Se c’è un futuro per il griko quello è certamente il neogreco», auspica Aprile. La lingua che viene parlata oggi in Grecia viene intesa, infatti, abbastanza bene dai parlanti dell’area salentina e viceversa. Il futuro, dunque, è quello del ‘ritorno alle origini, alla terra dei padri’, a quella Grecia che è più di un semplice paese oltre l’Adriatico. «Occorre mantenere accesa la fiammella della grecità. Il griko così come è ora non ha un futuro. Ma il valore della grecità è ben più saldo della lingua», conclude Aprile.
Pasolini a Calimera
Pasolini però fece in tempo a venire a contatto con quella lingua e a conoscere alcuni dei parlanti. Un primo incontro era già avvenuto tra il 1959 e il 1960 quando lo scrittore friulano si era prestato alla stesura del soggetto per il documentario di Cecilia Mangini, Stendalì – suonano ancora. Il breve filmato era incentrato sulla figura delle prefiche, le donne che anticamente eseguivano i lamenti funebri durante i funerali e che, negli anni Sessanta, erano ancora presenti in Salento. Alcune opere in griko salentino erano state poi inserite dallo stesso Pasolini all’interno del Canzoniere italiano, l’antologia della poesia popolare dello scrittore di Casarsa.
Quel pomeriggio di ottobre del 1975 il poeta si recò così a Calimera per ascoltare di persona l’esibizione dei canti popolari in griko. Non era presente alcuna autorità civile. Né il sindaco democristiano né le scuole diedero la possibilità a un omosessuale dichiarato, anticattolico e di matrice comunista di essere ospitato. Così uno spazio venne allestito all’interno di un palazzo privato, una vecchia fabbrica di tabacco dell’ex sindaco comunista del paese. Al gruppo, composto dagli studiosi presenti al convegno leccese, si unì anche il fotografo del paese Antonio Tommasi che scatta una serie di foto in bianco e nero.
Quello strano presagio…
Uno dei primi a esibirsi davanti agli occhi di Pasolini fu Cosimino Surdo. Quest’ultimo «non faceva il musicista di professione ma era un lavoratore nei campi», racconta Marcello Aprile che era lì insieme al padre Rocco, uno dei due organizzatori. Poi suonarono i fratelli Licci che già si avviavano a diventare dei musicisti, solo con l’accompagnamento di una chitarra.
Pasolini apprezzò proprio la spontaneità dei canti e l’improvvisazione di quell’incontro. «Fu in quell’occasione che ci rendemmo conto che avevamo qualcosa di speciale se uno come Pasolini si scomodava per interessarsi a noi, alla nostra lingua». Dopo i primi canti popolari in griko, lo stesso Pasolini volle ascoltare in prima persona i cosiddetti morolòja, i canti delle prefiche. Si racconta che venne più volte dissuaso dall’ascoltare tali canti fuori contesto, in assenza del morto. Si temeva, per una forma di superstizione, che l’esecuzione di tali brani in assenza di un defunto portasse sfortuna. Fu così che Pasolini fece uscire il resto del gruppo rimanendo da solo ad ascoltare i lamenti funebri.
Una decina di giorni dopo, nella notte tra l’1 e il 2 novembre del ‘75, lo scrittore venne ucciso e il suo corpo ritrovato all’idroscalo di Ostia. Le foto dell’archivio di Tommasi rappresentano, pertanto, l’unico documento dell’ultimo incontro pubblico di Pier Paolo Pasolini.