Carcere, lacune e soluzioni. La voce di Antigone
Spesso capita che i discorsi sul carcere vengano evitati o stigmatizzati dalla classe politica, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica. Abbiamo voluto intervistare Federica, una ricercatrice di Antigone Onlus, per cercare di capire meglio il funzionamento di questo sistema e come possa essere migliorato.
Cos’è Antigone?
«Antigone è un’associazione fondata ufficialmente nel 1991 e nasce, come dice il nostro slogan, “per i diritti e le garanzie del sistema penale e penitenziario”. Quindi mira a studiare e monitorare il sistema penitenziario oltre che, appunto, penale. Questo ci permette di avere uno sguardo sul sistema cercando di essere il più indipendenti possibili. I nostri fondi, per esempio, non provengono da istituzioni governative».
Di cosa si occupa Antigone?
«L’attività principale è l’osservatorio sulle condizioni di detenzione: siamo la sola associazione in Italia e tra le poche in Europa che ogni anno è autorizzata dal ministero della Giustizia a entrare in tutti gli istituti penitenziari d’Italia con lo scopo specifico di monitorare. Chiaramente per adulti e per minori servono due autorizzazioni diverse: per i primi deve essere rilasciata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e per i secondi dal Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità. Per ogni istituto raccogliamo dati qualitativi e quantitativi e successivamente ne facciamo una descrizione completa, una raccolta dati e a fine anno pubblichiamo un rapporto. Per i minori ogni due anni. Da quest’anno, poi, cureremo un rapporto tematico solo sulle donne. Svolgiamo inoltre attività di informazione legale per aiutare i detenuti su tutte le questioni che hanno a che fare con la detenzione (domanda di trasferimento, salute etc). Per noi è importante che il carcere sia trasparente rispetto a tutta la comunità».
Da inizio anno ci sono stati 79 suicidi in carcere, il tasso più alto mai registrato. Come mai?
«Sì, è il tasso più alto mai registrato. Abbiamo visto, analizzando tutti questi numeri, che intanto ci sono molte più donne del solito. Successivamente spicca il numero degli stranieri. Di solito gli stranieri nelle carceri sono circa il 30-34% e circa la metà dei suicidi sono stati commessi da persone straniere. L’incidenza è molto più elevata rispetto ai detenuti italiani. È sempre molto complicato seguirne l’andamento. Per esempio un terzo dei casi era affetto da patologie psichiatriche o da dipendenza».
Quale potrebbe essere la soluzione?
«Sicuramente la soluzione sarebbe quella di migliorare la vita dentro gli istituti penitenziari. Sembra una misura scontata ma è una questione molto complicata. Vi sono due momenti, in particolar modo più delicati, che potrebbero permettere di prevenire i suicidi: ingresso e rilascio. Al momento dell’ingresso – vale per lo più per i detenuti alla prima detenzione – le persone possono avere difficoltà ad ambientarsi o ripercussioni a livello psicologico e successivamente fisico. Quindi è importante avere una sezione ‘nuovi giunti’ o ‘d’accoglienza’ dove le persone siano seguite e aiutate. Il momento del rilascio si ha nel momento in cui la persona si avvicina al fine pena e dovrebbe affrontare la questione della preparazione al rilascio, quando è importante iniziare a costruire una vita dopo il carcere. Bisognerebbe garantire la possibilità di telefonare più spesso rispetto ai dieci minuti settimanali garantiti oggi e fornire assistenza psicologica. Ricordiamo che il carcere soffre parecchio tagli di fondi o crisi economiche e ciò chiaramente influisce sulle possibilità garantite ai detenuti».
Costruire più carceri è la soluzione al sovraffollamento?
«Costruire nuove carceri non è qualcosa di immediato e ci vuole parecchio tempo. Dire “risolvo il sovraffollamento con la creazione di un nuovo istituto” è poco realistico e nel breve termine non può essere la soluzione. Nel lungo termine, invece, potremmo avere subito il sovraffollamento nelle nuove strutture e quindi la ripresentazione del problema. Questo perché magari con la costruzione di un nuovo istituto vi è la dismissione di un altro più vetusto e meno efficiente. Stiamo sicuramente vedendo un aumento del numero dei reati da codice con, in parte, una riduzione della criminalità ma sempre più persone entrano nel circuito penale».
Che altro si potrebbe fare?
«Una delle proposte per impedirlo è stata quella delle “misure alternative” al carcere, come per esempio l’affidamento in prova al servizio sociale. Il servizio sociale dà un programma personalizzato da seguire alla persona specifica ed essa non finisce in carcere, ma ha dei compiti da svolgere e la partecipazione a degli incontri con l’ufficio di esecuzione penale esterna. Un’altra alternativa al carcere è la detenzione domiciliare, che però, da quanto ci riportano diversi assistenti sociali, viene seguita con più difficoltà dagli Uffici di Esecuzione Penale Esterna perché il personale è troppo poco rispetto alle persone da assistere. Alla fine di questo periodo la pena può definirsi scontata. Queste sono solo due delle pene alternative al carcere che potrebbero effettivamente diminuirne l’affluenza e risolvere il sovraffollamento. La mentalità oggi è che il carcere sia ancora la pena principale e le pene alternative o la depenalizzazione di determinati reati (sulla cannabis per esempio) passano in secondo piano. Sicuramente per risolvere il sovraffollamento è necessario un cambio di mentalità e legislativo. E quindi non costruire nuove strutture».
Parliamo di 41-bis: cos’è e perché viene utilizzato in maniere impropria?
«Il 41-bis o carcere duro viene visto come una punizione più dura rispetto al carcere di base ma in realtà l’idea è quella di interrompere i legami tra persone che si trovano in carcere e la loro organizzazione criminale. Istituito nel ‘93, è stato poi modificato varie volte con l’introduzione e la sua regolamentazione attraverso le circolari (l’ultima nel 2017). Nella circolare vengono date indicazioni specifiche, come per esempio il numero di pentole o le fotografie che il detenuto può avere con sé. Alcune di queste disposizioni sembrano fatte apposta per vessare il detenuto. In generale, se una persona non è inserita in altre attività, può ritrovarsi a passare in isolamento 22 ore al giorno e le altre due ore si possono passare in socialità con persone selezionate dall’amministrazione. È chiaramente una misura speciale che dovrebbe essere riformulata».
Quale sarebbe quindi il “carcere ideale” secondo Antigone?
«Il carcere dovrebbe essere ricco di attività. Dovrebbe essere il posto dove la persona che ha fatto uno sbaglio per mancanza di possibilità debba essere messo nelle condizioni di averle. Le attività suggerite devono essere significative per il ritorno in società. Vi deve essere un lavoro individuale ma soprattutto devono esserci attività e opportunità pratiche come la formazione professionale o l’istruzione. Sono molto poche le persone che svolgono attività formative (2-3% su tutta la comunità carceraria) e questo rende il carcere un posto dove si riempie il tempo e non dove si costruisce per un futuro diverso. Un carcere ideale, posto appunto che possa esserci, deve puntare sulla costruzione di un futuro per e con la persona. Deve farlo per un futuro diverso da quello da cui il detenuto proviene. Solo così, allora, potremmo parlare di un reale funzionamento delle carceri e del loro sistema».