La Bolivia e il litio: tracce di un colpo di stato
Circa l’85% delle riserve mondiali di litio si trova nel cosiddetto “triangolo del litio”: Argentina, Bolivia e Cile. Imprese di tutto il mondo sono interessate alla sua estrazione. Ma se altrove sono riuscite a ottenere lucrosi contratti, in Bolivia, con le politiche di Evo Morales, le cose sono andate un po’ diversamente, almeno fino al golpe del 2019. Elena Rusca, collaboratrice del quotidiano cileno El Clarín e di PuntoCritico, ne ha parlato con José Pimentel, ex ministro delle Miniere e della Metallurgia di Morales dal 2010 al 2012.
“Si è cominciato a lavorare il litio nel 1993, subito dopo la pubblicazione di uno studio francese, in piena fase di avanzata del modello neoliberista, estraendo la materia prima senza raffinarla. Quando è arrivato Evo Morales i contadini reclamavano i profitti delle risorse del territorio boliviano. Ma a quel tempo sul litio non avevamo più dati di quelli a disposizione dell’industria francese”, ci racconta José Pimentel, ex ministro boliviano delle Miniere e della Metallurgia di Evo Morales dal 2010 al 2012.
La vittoria di Evo Morales nel 2006 ha segnato l’inizio del processo che ha cercato di porre fine alla subordinazione del popolo boliviano agli interessi delle grandi multinazionali.
In relazione al litio il processo di nazionalizzazione e industrializzazione è iniziato nel 2008, quando il presidente Evo ha seguito la richiesta storica delle comunità delle regioni minerarie boliviane: che le risorse del Salar de Uyuni fossero sfruttate dallo Stato.
Dall’epoca coloniale fino alla sua costituzione come Stato nazione le risorse naturali della Bolivia sono state sfruttate da Stati stranieri. Uno sfruttamento che, ovviamente, ha tenuto poco conto degli interessi delle comunità locali.
È così che i locali movimenti sindacali dei contadini hanno elaborato il progetto di industrializzazione del Salar de Uyuni e in quegli anni decisero di chiedere al nuovo presidente di metterlo in atto. La sua realizzazione avrebbe significato arrivare alla produzione di carbonato di litio e cloruro di potassio attraverso la creazione di una società pubblica e statale.
Così una richiesta popolare si è trasformata in una politica dello Stato.
La legge 3720 ha restituito alla Bolivian Mining Corporation (COMIBOL), la compagnia minerararia di Stato, la possibilità di partecipare direttamente all’intera catena produttiva esercitando le funzioni di prospezione ed esplorazione, sfruttamento, concentrazione, fusione e raffinazione, commercializzazione di minerali e metalli e amministrazione degli oneri fiscali.
Nel 2008, con la delibera numero 3801, è stato approvato il progetto di sviluppo globale Salar Uyuni Brines e l’installazione e l’avvio di un impianto pilota per il trattamento del litio.
Il processo di nazionalizzazione e consolidamento delle risorse naturali, inteso come chiave per l’elaborazione e l’esecuzione di una politica estera sovrana, è proseguito con l’approvazione nel 2009 della Nuova Costituzione politica dello Stato in cui le risorse naturali sono dichiarate strategiche e di interesse pubblico.
Per realizzare il processo di industrializzazione è stata progettata la Strategia Nazionale per l’Industrializzazione delle Risorse delle Evaporiti (rocce sedimentarie che si sono formate da salamoie – corpi d’acqua saturi di sale – concentrate dall’evaporazione) che prevedeva tre fasi attraverso le quali lo Stato boliviano avrebbe iniziato a controllare l’intera filiera della produzione del litio.
Sfortunatamente “dal colpo di stato del 2019, il progetto di estrazione del litio sta procedendo molto lentamente. La costruzione dell’impianto del litio è quasi completata. Tuttavia rimane il problema dell’approvvigionamento idrico. L’acqua della salina è salata: per poterla utilizzare deve essere trattata, e questo va fatto a 20 chilometri dalla salina: questo comporta tempi e costi aggiuntivi”, continua José Pimentel. “Il golpe, in ogni caso, ci ha paralizzato”.
Perché l’industrializzazione è così importante?
“Nella logica della Costituzione boliviana le risorse boliviane non devono essere sfruttate sotto forma di materie prime, ma dobbiamo passare attraverso una processo di industrializzazione: per quanto riguarda il litio significa passare dalla semplice estrazione di materia prima alla produzione di batterie”, spiega l’ex ministro. “Per essere competitivi dobbiamo far leva sulla nostra stessa materia prima, ma durante il golpe il suo sfruttamento è stato paralizzato insieme al processo di industrializzazione: l’estrazione si è fermata e, con essa, gli studi relativi al suo utilizzo industriale”.
“Il litio, come materia prima, è molto richiesto, ma noi, come paese, non siamo interessati a questo tipo di commercio: l’attività di semplice esportazione del litio come materia prima rappresenterebbe un guadagno minore, che non produce valore aggiunto, mentre con l’utilizzo industriale si creerebbe una fonte di lavoro con l’apertura di fabbriche per la produzione di batterie e il medesimo prodotto assumerebbe un valore molto più alto. Non fare questa scelta significherebbe ridursi a vendere il litio ai produttori da cui poi compriamo le batterie”, continua Pimentel. “Attualmente ci sono aziende cinesi, russe, canadesi coinvolte nello sfruttamento del litio. I rapporti tra queste aziende e lo Stato boliviano sono chiari: l’idea è trasferire tecnologia, non vendere le nostre risorse a società straniere: in questo modo il 50% dei profitti andrà sempre allo Stato boliviano”.
Un risultato importante, se si pensa che attualmente gli utili dei paesi che consentono alle aziende straniere di estrarre le proprie risorse e gestirle direttamente ammontano solamente al 15% se l’azienda è nordamericana o europea e al 30% se l’azienda è cinese.
Estrazione delle materie prime: intrecci e contraddizioni del capitalismo
Nessuno si è opposto all’estrazione: la salina è desertica e nessuna comunità la abita, tuttavia l’estrazione del litio nella salina avrà conseguenze, costi ed effetti di vario genere sui vari settori economici e sulle diverse fasce sociali presenti nella comunità locale: la possibile contaminazione e la scarsità d’acqua, così come il degrado dell’ambiente, rappresentano eventualità particolarmente preoccupanti, perché colpirebbero soprattutto le comunità che praticano l’agricoltura e l’allevamento. Altri fattori da tenere in considerazione sono l’aumento dei rifiuti e la contaminazione della salina, che a medio termine colpirebbero anche l’industria del turismo, per cui la conservazione di questo particolare ambiente naturale è essenziale.
“In generale la Bolivia è un paese minerario e a volte ci sono casi di sfruttamento delle risorse del sottosuolo condotte in modo informale, che non rispettano l’ambiente: la Bolivia è ancora un paese sufficientemente piccolo per controllare ogni angolo del suo territorio”, osserva José Pimentel. “Attualmente ci sono delle cooperative di minatori, create dallo Stato per far fronte ai problemi sociali presenti in Bolivia, primo tra tutti, l’estrema povertà. Nel 2017 c’è stata una forte mobilitazione da parte di cooperative affinché lo Stato consentisse loro di collaborare con le aziende private. Ma si tratta di una questione delicata, perché, attraverso questa collaborazione quelle cooperative diventerebbero imprese e perderebbero la propria natura cooperativa”.
“Il mondo in cui viviamo è molto contraddittorio: finché esisterà il capitalismo ci sarà sempre una disputa per il potere e accadranno cose come il colpo di Stato del 2019, le sue tracce rimarranno visibili, come nel caso dell’estrazione del litio che si è fermata”, riflette l’ex ministro. “Quando una società straniera viene a sfruttare una risorsa boliviana qui allo Stato deve pagare una tassa più alta che in altri paesi. Nonostante questo l’obiettivo ideale è l’industrializzazione, ma dopo il golpe la sua realizzazione sembra molto lontana. Per raggiungere questo obiettivo non bisogna perdere la capacità di vedere la questione in modo complessivo, invece di concentrarsi sulla ricerca di guadagni immediati”.
“Purtroppo il sistema cooperativo è molto poco sviluppato e dietro le cooperative si nasconde l’azione di sfruttamento delle multinazionali. In definitiva è tutto precario. I minatori salariati sono diventati una classe aristocratica e serve una forza che voglia davvero spingere per la realizzazione del progetto: una classe sociale disposta a lottare per avere sempre maggiori possibilità che il processo promosso dal MAS non si fermi”, sono le conclusioni di Pimentel.