In Palestina chi è l’aggressore?
Dieci morti (minori compresi), oltre cento feriti, di cui 20 in modo grave. Sono le cifre del raid compiuto dall’aviazione israeliana nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Al blitz notturno infarcito di bombardamenti su un’area densamente popolata è seguita l’incursione di mezzi corazzati, bulldozer e centinaia di soldati. Dei 18mila abitanti totali, oltre 3mila (circa 500 famiglie) hanno dovuto abbandonare il campo.
La più grande operazione militare degli ultimi vent’anni, che a detta delle forze israeliane durerà qualche giorno. Con inevitabile aggiustamento delle cifre riguardanti morti, feriti e sfollati. Un “duro colpo alle organizzazioni terroristiche”, secondo il ministro della Difesa israeliano, ben incoraggiato da Washington, dove si ribadisce il sostegno al “diritto alla sicurezza” di Israele. Era dal 2002 che Jenin – il terzo campo profughi più grande della Palestina, ma primo negli indici di povertà e disoccupazione – non subiva un attacco di tali proporzioni: strade, rete idrica e fognaria distrutte, palazzi e auto danneggiati.
Una battaglia di posizionamento nella cornice delle occupazioni illegali e dei pogrom da parte dei coloni israeliani, cui nemmeno per sbaglio possiamo opporre i nostri vivacissimi aneliti di resistenza. Non sentiamo forse come un mantra la cantilena del “ci sono un aggredito e un aggressore”, con lo scopo di persuaderci – non riuscendoci ancora completamente, a giudicare dai sondaggi che indicano una forte contrarietà all’invio di armi a Kiev – sulla bontà della guerra di risposta all’aggressore russo? Eppure stupisce questa incoerenza rispetto alla questione israelo-palestinese: che ci siano un aggredito e un aggressore è pacifico da decenni. Perché non inviamo le più sofisticate armi ai palestinesi per combattere gli israeliani “fino alla vittoria”? Strano.