L’aborto è mio e me lo gestisco io
La libertà di scelta
L’utero è mio e lo gestisco io. Durante le lotte femministe degli anni Settanta, questo era uno dei motti declamati a gran voce dalle donne che rivendicavano un diritto rivoluzionario: l’autodeterminazione femminile e la libertà di scegliere per sé stesse e il proprio corpo, svincolandosi per la prima volta dall’odioso paradigma che legava la realizzazione di una donna al ruolo di madre. Un’idea lanciata per la prima volta nel 1949 da Simone De Beauvoir ne Il secondo sesso, dove veniva finalmente data alle donne la possibilità di scegliere consapevolmente fra il «fare figli o lo scrivere libri». E proprio questa scelta, oggi, è sotto attacco.
Il caso Polonia
Dopo mesi di manifestazioni in piazza, il governo polacco ha annunciato il 27 gennaio l’entrata in vigore della sentenza della Corte Costituzionale che vieta la possibilità di abortire in caso di malformazione del feto. Una decisione che era già al vaglio da ottobre, ma che era stata messa in pausa a causa delle numerose proteste in tutte le piazze del Paese a cui aveva fatto seguito la pubblica condanna da parte dei membri del Parlamento europeo:
«Le donne hanno diritto all’autodeterminazione sui propri corpi – ha dichiarato Evelyn Regner, presidente della Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere del Parlamento europeo -. La Polonia ha già una delle più severe leggi sull’aborto in Europa, per cui questa ultima decisione rappresenta un attacco particolarmente feroce nei confronti delle donne polacche e dei loro diritti, ma anche di tutte le donne europee. Un divieto di questo tipo conduce al ricorso ad aborti clandestini, che implicano importanti rischi per la salute delle donne che vi si sottopongono. Questa situazione era vera 100 anni fa e lo è ancora, purtroppo, oggi».
Come ricordato da Regner, infatti, la legge relativa all’interruzione di gravidanza vigente in Polonia dal 1993 prevedeva già un limitato numero di casi in cui la donna poteva ricorrere all’aborto: stupro, incesto, pericolo di vita per la madre e malformazione del feto. Proprio quest’ultimo è stato il caso rimosso dall’elenco di ipotesi per cui poter accedere all’interruzione volontaria di gravidanza in questi giorni, su proposta del Pis (Prawo i Sprawiedliwość – Diritto e Giustizia), il partito nazionalista di stampo cattolico alla maggioranza in Polonia. La malformazione del feto è inoltre, secondo le attiviste, uno dei principali motivi per cui le donne polacche decidono di interrompere la gravidanza: la percentuale di aborti legali per malformazione del feto si aggira infatti attorno al 98%. Con un tasso di obiettori di coscienza medio del 90%, che tocca il 99% in alcune regioni del Paese.
La Convenzione di Istanbul
L’ingerenza dello Stato sui diritti riproduttivi e sessuali delle donne contrasta inoltre i principi sanciti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne (conosciuta come Convenzione di Istanbul) promulgata nel 2014 con l’obiettivo di contrastare la violenza di genere e firmata dall’Unione Europea nel 2017. Fra i Paesi europei ad averla ratificata, anche la Polonia. Che ha da pochi giorni avviato il processo di disdetta.
«Questo periodo storico è particolarmente pericoloso per le donne – ha commentato Evelyn Regner, assieme al collega Juan Fernando Lopéz Aguilar, presidente della Commissione per le libertà civili -. Non dobbiamo ridurre, ma anzi implementare le azioni volte a fermare la violenza contro le donne, una delle principali e maggiormente diffuse violazioni dei diritti umani. Ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul invaliderebbe il progresso fatto nella protezione delle donne dalla violenza».
Aborto legale, nessun compromesso
In reazione al divieto pressoché totale di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, i movimenti per i diritti delle donne e i legislatori di sinistra hanno lanciato una controffensiva, rifiutandosi di perdere la speranza. Il 3 febbraio è stata presentata infatti al Sejm, il parlamento polacco, una proposta di legge di iniziativa popolare per cui è stata avviata una raccolta firme ispirata alle “sorelle argentine”, dove le donne hanno ottenuto a fine dicembre, dopo circa 15 anni di lotte, la legalizzazione dell’aborto sicuro e gratuito.
Gli attivisti chiedono la legalizzazione dell’aborto entro la dodicesima settimana di gravidanza le cui spese sanitarie siano sostenute dal sistema sanitario nazionale. Per essere discussa in parlamento, la proposta dovrà raccogliere 100mila firme.
Con l’entrata in vigore della nuova legge, infatti, non soltanto le donne che decideranno di abortire per motivi differenti da stupro, incesto o pericolo di vita per la madre saranno perseguibili penalmente, ma fuorilegge saranno anche i medici disposti ad aiutarle. Se la situazione non cambierà, aumenterà il numero di donne costrette a cercare aiuto in altri Paesi europei. Grazie ad Abortion without borders, un network di attiviste fondato nel 2019 che unisce Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi e Polonia, in un anno di attività sono state 2199 le donne ad aver ricevuto supporto online per ottenere pillole abortive, mentre 262 sono riuscite a espatriare per ricorrere all’aborto in sicurezza. Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale di Varsavia, in 6 settimane l’associazione ha ricevuto più di 2500 chiamate.
Panoramica sull’aborto
Tra il 2015 e il 2019, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ogni anno sono stati effettuati in media 73.3 milioni di aborti nel mondo, ovvero 39 donne su 1000 fra i 15 e i 49 anni. Il 29% delle gravidanze e il 61% delle gravidanze indesiderate sono state interrotte da un aborto. Tra queste, una su tre è stato effettuato in condizioni pericolose per la salute della madre: secondo le stime sono state infatti 7 milioni le donne residenti in Paesi in via di sviluppo ricoverate in ospedale a seguito di aborti clandestini.
In Europa, la legislazione della maggior parte degli Stati permette l’accesso a una interruzione volontaria di gravidanza in totale sicurezza: oltre ai recenti sviluppi polacchi, l’aborto è proibito o permesso soltanto in casi estremi soltanto in pochi Paesi, tra cui Andorra, San Marino e Malta. Nella maggior parte degli Stati europei, invece, una donna può abortire fino a 10 o 14 settimane di gravidanza, ad eccezione di casi di stupro o malformazione del feto. In Irlanda, dove l’aborto è stato legalizzato soltanto nel 2018, e in Italia, l’aborto è permesso entro le 12 settimane.
Ciononostante, molte donne continuano ad avere difficoltà ad interrompere gravidanze indesiderate a causa dell’alto numero di obiettori di coscienza. Eppure secondo Amnesty International il diritto all’aborto fa parte dei diritti umani. «Criminalizzare e stigmatizzare l’aborto è come dire “So io ciò che è giusto per te”. Liberalizzare l’aborto invece equivale a dire: “Sai tu ciò che è meglio per te”» dichiara infatti l’associazione a protezione dei diritti umani nel mondo in un video caricato su Twitter. «Irlanda. Irlanda del Nord. Argentina. Corea del Sud: ora tocca alla Polonia». E perché no, anche al resto del mondo.