Cile, schiaffo al neoliberismo. «Vittoria del popolo»
«È una vittoria enorme. Qui c’è un clima di festa». A dirlo è Elena Basso, giornalista italiana in Cile. Pochi giorni dopo il weekend elettorale, in cui quasi 15 milioni di cileni erano chiamati a votare non solo per sindaci, amministrazioni locali e governatori regionali, ma soprattutto per i 155 membri dell’Assemblea Costituente che redigeranno la nuova Costituzione cilena, l’esito è ormai assodato.
Vittoria netta di sinistra, indipendenti, donne. Ma anche di indigeni, giovani e in generale di tutti quelli che volevano cambiare radicalmente non solo la Costituzione – sulla scia del referendum del 25 ottobre 2020, quando il 78% degli elettori si espresse per il Sì – ma un modello che per anni è stato definito «esemplare». Lo era solo per una quota ridotta di privilegiati. Non per la stragrande maggioranza della popolazione, che ha punito severamente il governo di destra del presidente Sebastián Piñera, ma anche i partiti tradizionali. Centrosinistra compreso. Santiago, Comune del centro della capitale, avrà una giovane sindaca comunista.
Trent’anni, ligure, Elena Basso ha vissuto in Argentina e in Cile, dove si trova ora. Collabora con Il Manifesto, La Repubblica, Il Venerdì, L’Espresso e Left. Impegnata nel lavoro di documentazione e memoria dei crimini delle dittature sudamericane, è fondatrice e vicepresidente dell’associazione Centro di giornalismo permanente. Con lei Ventuno ha scelto di commentare il momento che sta vivendo il Cile.
Il voto cileno segna una netta discontinuità. Un commento?
«Tutto è iniziato nell’ottobre 2019 da proteste spontanee dopo l’aumento di 30 pesos del biglietto della metro. Il giorno dopo c’erano un milione e mezzo di persone in piazza a Santiago e nel resto del Paese. Bisogna ricordare che durante la dittatura di Pinochet, a parte i crimini e le violenze, è stato instaurato anche all’interno della Costituzione un regime di politiche profondamente neoliberali dal punto di vista economico. Ciò ha fatto sì che si formasse una delle società più diseguali al mondo: negli anni i cileni hanno visto privatizzare dalla sanità alle pensioni, fino all’istruzione, senza una crescita dello stipendio mensile. Ci sono state anche altre rivolte in passato ma questa è stata massiva. Il Cile si è risvegliato, come si dice. I cileni però non chiedevano solo di riscrivere la Costituzione».
Cos’altro chiedevano?
«Una società più giusta. Per esempio riformando profondamente il sistema pensionistico. I cileni si sono sollevati contro il carovita, contro le privatizzazioni. Oppure contro il Sename (Servicio Nacional de Menores), il centro cileno per i minori che hanno commesso crimini o non possono essere seguiti dalla famiglia. Al suo interno, infatti, vengono commessi sistematicamente crimini, denunciati da organizzazioni internazionali per i diritti umani. Poi c’è la questione mapuche, il popolo originario più importante sia in Cile che in Argentina. In sostanza chiedevano di superare il sistema neoliberale. Queste istanze potranno trovare una risposta nella nuova Costituzione – e questo è molto positivo – però ci vorrà del tempo. Quindi non si può sapere se si fermeranno le proteste».
Che clima si respira in Cile dopo questo voto?
«C’è molta speranza, il clima è di festa. È una vittoria enorme. La Costituzione può intervenire anche sull’aborto, sulla violenza di genere, sulla questione mapuche, sull’impunità delle forze dell’ordine etc. Da molti anni i cileni hanno una sfiducia enorme, pensando che non cambi mai nulla. Invece questa volta non è andata così, grazie ai loro voti e grazie a chi da oltre un anno scende in piazza. Moltissimi manifestanti sono ancora in prigione preventiva da oltre un anno, però. Ecco perché non so se finiranno le proteste. Di tutte le denunce contro le forze dell’ordine, poi, meno dell’1% ha avuto un imputato, quindi c’è un’impunità altissima».
L’Assemblea Costituente avrà un anno di tempo per scrivere la nuova Carta, che sostituirà quella del 1980. Poi ci sarà un nuovo referendum per approvarla definitivamente. Nel frattempo, però, si vota ancora a novembre per le presidenziali. Una previsione?
«Quella di novembre è una scadenza molto importante. Bisogna ricordare che queste elezioni non sono state solo per eleggere i 155 cittadini che formeranno l’Assemblea Costituente, ma anche per sindaci e governatori regionali. Anche in questi casi c’è stata una sconfitta totale dei partiti tradizionali e soprattutto della coalizione di destra guidata dal presidente Sebastián Piñera. Comuni storicamente di destra sono passati a sinistra, come Viña del Mar o Ñuñoa, un Comune di Santiago. Perché la capitale è divisa in diversi Comuni, uno dei quali è quello di Santiago, dove ha vinto la comunista Irací Hassler. Quindi la tendenza è stata estremamente diffusa. Molto importante è stata anche la riconferma di Daniel Jadue, candidato alle presidenziali per il Partito comunista, con oltre il 60% a Recoleta, un Comune molto popolare di Santiago».
Daniel Jadue a questo punto si pone in pole position per le presidenziali, quindi?
«Sì. Lui è un candidato comunista duro e puro. Come sindaco è stato molto vicino ai bisogni dei cittadini».
A vincere, comunque, è stata la sinistra radicale, che si pone in netta discontinuità anche con il centrosinistra (a lungo al governo in Cile dopo la fine della dittatura). È così?
«Sì, perché le politiche neoliberali sono state sostenute sia dalla destra sia dal centrosinistra».
Quindi è una sconfitta di un sistema, quello neoliberista. Nel quale il mercato domina sullo Stato e il privato sul pubblico. Con una grande sperequazione tra ricchi e poveri.
«C’è una concentrazione spropositata della ricchezza, nelle mani dell’1% della popolazione. In passato il Cile era visto come un’oasi in America Latina, un modello che poi è stato imitato in altri Paesi con le stesse politiche “feroci” dal punto di vista economico. La stragrande maggioranza della popolazione in realtà soffre. Tanto è vero che oggi vediamo le stesse rivolte in Colombia» (leggi anche Colombia, fame e rabbia in piazza. «Senza un vero cambiamento altri cent’anni di solitudine»).
Ecco: anni fa, appunto, si parlava del “modello cileno” intendendo quello appena descritto. Oggi il Cile può diventare un modello in un altro senso? Magari come esempio, anche in questo caso, per abbandonare il sistema neoliberista?
«Senza dubbio. Le manifestazioni in Colombia di questi giorni sono estremamente simili a quelle viste in Cile. Così come, purtroppo, la repressione da parte della polizia. Va ricordato che in Cile oltre 8mila cittadini hanno denunciato le forze dell’ordine per abusi, detenzione illegale, pestaggi, stupri, torture durante le manifestazioni. In 460 sono stati accecati parzialmente o totalmente. In Colombia si vede la stessa situazione. La sollevazione del popolo cileno quindi rappresenta senza dubbio un esempio».
Si riuscirà a cambiare davvero il Cile, dopo questo voto?
«Sì, perché il numero di indipendenti – la vera sorpresa di queste elezioni – è schiacciante. Come ha fatto emergere il giornale d’inchiesta Ciper, pochissimi dei candidati che hanno investito fondi milionari sono stati eletti. Invece sono stati eletti tantissimi candidati che hanno investito l’equivalente di poche centinaia di euro, perché gli indipendenti hanno fatto una campagna massiva casa per casa o nei mercati per mesi e sono stati premiati tantissimo. Poi è stato importantissimo garantire dei seggi per le popolazioni originarie, che nella Costituzione di Pinochet non sono nemmeno nominate. Infine, segnalo che si è deciso di assegnare il 50% dei seggi della Costituente alle donne, perché si pensava che venissero eletti più uomini. Invece è avvenuto il contrario! Quindi ora si sta riequilibrando la composizione, ma per garantire il 50% dei seggi agli uomini… E questo è un fatto molto positivo. Credo che si potrà cambiare il Cile nel lungo periodo».
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