La favola del baseball Cagliari, in poule scudetto senza sponsor. E senza campo
Accendi la tivù perché c’è l’avvenimento del giorno. Scendono in campo quelli che la gente comune definisce Eroi… Sembra di vedere Mosè che scende dal Sinai con le tavole delle norme e trova il popolino in adorazione del Dio Pagano.
Lo so, direte: il solito disfattista. In Italia è così facile scrivere “contro”, criticare, essere scettici. Però…
Però usare il setaccio, o gli occhi per guardare se preferite, senza considerare oro colato tutto quello che ci dicono o che commentano i “diretti interessati” – beh – dovrebbe essere un esercizio elementare. Alzi la mano chi lo fa, mentre il commentatore (bravo, indubbiamente) della tivù a pagamento si azzarda nel definire «sta per finire un bel primo tempo» della partita di calcio più noiosa e inconcludente della storia. Un attimo, guardiamo in giro: non vediamo mani alzate, forse una decina laggiù, in fondo.
Una storia di nicchia
Lo so cosa starete pensando. Ma perché non scrivi quello che stai scrivendo a noi su un social? Lì è tutto una polemica, lì se azzardi a dire «non sono d’accordo» la pena è capitale…
No. Scrivo a voi che leggete qui, su queste bellissime pagine indipendenti. Scrivo come mente aperta e libera.
Perché vi voglio raccontare una storia che ha dell’incredibile. Una storia di nicchia. Uno sport di nicchia. Uno di quegli sport che… bisogna pensare. Che la maggior parte delle persone dice «non lo seguo perché è complicato, non capisco le regole». Io non sono un Einstein, se ce l’ho fatta io…
La storia vi porta nel piccolo e straordinario mondo del baseball italiano. Lo seguiamo da tantissimi anni. E ci vengono gli occhi lucidi a pensare il mondiale giocato in Italia alla fine degli anni Settanta, con una media poco inferiore ai diecimila spettatori a partita, per i nostri impianti un vero sold out.
Cosa c’entra la premessa con questa storia? Aspettate e vedrete.
Dagli Usa a Cagliari
La storia comincia nel lontano 1957. Dai militari Usa in Italia un gruppetto neppure sparuto di ragazzi (il made in Usa va fortissimo, dalle prime gomme da masticare al rock, dalle gambe della divina Marilyn ai blue jeans) scopre un mondo misterioso e lontano, mitizzato ma ai più sconosciuto. Si chiama baseball, c’è una pallina che se arriva addosso senza le dovute coperture fa un male cane, c’è uno strano guanto da indossare e una divisa piuttosto curiosa, pantaloni alla zuava, casaccona coi bottoni…
È nel 1957 che a Cagliari, là dove vi portiamo, si gioca a baseball, in un numero sufficiente per fare una squadra. Undici? Nossignori. Nove in campo. E se uno si fa male e non c’è ricambio, partita persa. Ancora oggi.
Ci va a giocare la mitica Fortitudo Bologna, che ha aperto al nuovo mondo con qualche anno di anticipo. E che oggi, 64 anni dopo, è campione d’Europa in carica.
Il Cagliari è ai primordi: non ha un campo di gioco, ma per allora è abbastanza normale. Non è normale quello che vi stiamo per raccontare 64 anni dopo.
Perché il baseball italiano, che il Nulla (cioè il Dio Pallone dei miliardari) ha spazzato via, come molte altre razze in estinzione, compreso il calcio “di periferia” (ma qui dovremmo scomodare il conte Ugolino di dantesca memoria), si appresta a vivere una poule scudetto a otto. E di questa poule scudetto a otto, per la prima volta nella sua storia, c’è anche il Cagliari.
La squadra è isolana al quadrato, composta com’è da cubani e sardi che in comune hanno tante cose: il senso di appartenenza, l’orgoglio smisurato, la tenacia.
Nomadi forzati
È una favola, cari amici che avete avuto la pazienza di leggerci fin qui. Una favola vera. E se non ci credete, se pensate che si tratti della solita tiritera del giornalista bravo a mettere in fila soggetto, predicato verbale e complemento oggetto come il miglior piazzista di aspirapolvere, beh, scusate, vi sbagliate.
Se non ci credete, avreste dovuto vivere la vita di questa piccola grande realtà, che mette in campo dai ragazzini agli adulti, una realtà condannata al “nomadismo” dalla geografia, ma pure dalla cecità della politica, dall’abuso della parola “sport”.
L’eccezione cagliaritana
Perché essere sportivo può essere salire sul carro dei vincitori, specie se è un carro pieno di soldi (chissà come fatti). Ma è assai più nobile, andrebbe scritto a caratteri cubitali, se parti per una trasferta in dieci contati, perché queste sono le risorse a disposizione, se ti alleni e giochi a 50 chilometri dalla città che rappresenti, se non becchi il soldo di un quattrino e non sai se domani potrai ancora giocare, allenarti, amare con tutto te stesso la tua passione sportiva.
Sì, lo diciamo a voce alta: il Cagliari baseball e softball è eccezionale. Per la prima volta parteciperà a una poule scudetto, è probabile che venga spazzato via, che di otto al via arrivi ottava. Ma non importa. È un risultato eccezionale, per chi ha costruito con dedizione certosina la sua passione cercando di fare proseliti nelle scuole elementari, tra mille Cristiani Ronaldo e un solo bambino disposto ad ascoltarti.
C’è qualcosa di meraviglioso nel pensare che questi ragazzi cominceranno al Nino Cavalli di Parma la loro avventura più importante. E ti vengono in mente le storie cinematografiche che evocano piccolissimi college americani giunti a giocarsi il titolo universitario con le franchigie più grandi in ogni ordine di grandezza.
Un pallone d’Oro contro il Nulla
Una storia ancor più nobile se si pensa che Cagliari in 64 anni non è riuscita a dare uno straccio di “casa sportiva” a questa realtà. Se il piccolo campetto da softball dove giocano le altrettante meritorie ragazze e i bambini è destinato a morte certa da una concessione di edificabilità firmata dai soliti politici ciechi e senza uno straccio di cultura sportiva. Se a tutt’oggi in Sardegna non esiste un solo campo da baseball con illuminazione. Cosa che costringerà i nostri eroi a giocare “in casa” nella limitrofa (o no?) Lombardia.
Ecco, cari amici, la nostra filippica finisce qui. Restiamo ancorati a una concezione romantica della parola sport. La difendiamo dal Nulla, dallo Scontato, dal Banale. Caro CR7, perdonaci, ma Angioi e i suoi, loro, sì, meriterebbero un pallone d’Oro. Un pallone con le cuciture però.