Ciò che resta di noi – prima, durante e dopo la notte della promozione
Pochi giorni dopo l’uscita del calendario del prossimo campionato di Serie A di calcio, pubblichiamo un racconto sulla promozione del Venezia, o meglio dell’Unione, come viene ancora chiamata dalla sua tifoseria, legata alla fusione e alla denominazione Veneziamestre. Diciannove anni dopo l’ultima apparizione nella massima serie, facciamo un passo indietro e torniamo allo scorso 27 maggio, quando la squadra arancioneroverde ha conquistato il traguardo della A nel suo stadio, il vecchio Penzo, nella finale dei playoff contro il Cittadella. Per la cronaca, la partita è finita 1-1, con il pareggio decisivo nel finale del veneziano doc Riccardo Bocalon.
L’attesa prima degli ultimi 90′
Impossibile non accelerare il passo alla vista di tutta quella gente assiepata lì sotto, ai piedi del ponte che porta ai Giardini. Riva dei Sette Martiri è una strada da percorrere di corsa, alla velocità dei vaporetti pieni che strombazzano alla vista degli stendardi, con i fioi che cantano schiacciati contro i boccaporti, sciarpe alla mano.
I fioi. Che non è un termine neutro, perché quando chiami i fioi riconosci che anche loro sono figli della stessa cosa tua.
Bandieroni stagliati contro un cielo plumbeo, fumogeni che salgono a mischiarsi alle nuvole nere. Come ogni momento importante di questa città, oggi non poteva non esserci almeno un evento atmosferico avverso. Per quanto bello e indimenticabile non fare mai l’errore di credere che andrà tutto liscio. Tifiamo l’Unione, in fin dei conti. «No ma xe scuro sora e ciaro soto, ti vedarà che no fa niente». E anche se i secoli di sapienza meteorologica marinaresca che ti scorrono nelle vene dicono che l’improvvisato veggente ha ragione da vendere, non puoi fare altro che rifugiarti in uno scaramantico «Speremo». Che stasera non è tempo di calcoli e statistiche, bensì di scongiuri, rituali ancestrali e magie segrete.
Quel che resta di tre colori
Il commesso del negozio ufficiale della squadra sostiene di aver venduto tutte le bandiere nei giorni seguiti allo 0-1 col Cittadella. A riprova indica anche le maglie da gioco, ridotte a poche taglie appese sghembe sugli attaccapanni. Lo dice con un sorriso a metà, pendente tra la soddisfazione di aver realizzato l’incasso più alto da quando ha aperto i battenti e l’averlo fatto mantenendo gli sconti dei mesi passati in zona rossa. Infine, giura che i prezzi non li alzerà comunque, nemmeno nel caso in cui dovesse succedere quel che deve succedere. Ha un cuore, lui. Anche se non aver fatto scorte maggiori di materiale lo qualifica come uomo di poca fede.
Eppure di drappi appesi ai balconi ce ne sono davvero pochi, la maggior parte dei quali risalenti ad epoche societarie distanti e, c’è da augurarselo, prossime all’oblio. Con tre fallimenti, e conseguenti cambi di loghi e denominazione ufficiale, in nemmeno quindici anni è dura affezionarsi al merchandising. Così, ciò che si vede in giro assomiglia più ad una piccola mostra itinerante di cimeli storici che alla città addobbata a festa del 1998, come qualche nostalgico ottimista si proponeva di rievocare tramite appelli sui social.
Sarebbe stato bello, certo, passeggiare per le calli dipinte di arancioneroverde, percepire l’attesa del momento fatale crescere di minuto in minuto assieme al groppo che ci chiude lo stomaco. Sarebbe stato bello non sentirsi i pochi adepti di una setta segreta, spartire l’adrenalina con qualcuno in più dei soliti amici di sempre con i quali si è seguito il primo campionato della vita completamente lontano dagli spalti. La posta in palio è la stessa di ventitré anni fa, mentre diciannove ne sono passati dall’ultima presenza nella massima serie.
Ma è tutta la città ad essere cambiata, in questo ventennio di turismo di massa e di spopolamento continuo. Ad essere riemersa dall’acqua granda del 12 novembre è una Venezia ancora più cinica e triste, dalle cento contraddizioni esacerbate da una pandemia che ha reso, al netto delle analisi naif su un futuro sostenibile, ancora più difficile immaginare un destino diverso da quello prefigurato.
Il popolo arancioneroverde
Comunque non siamo pochi, anzi. Saremmo stati almeno il doppio se non fosse un maledetto giovedì lavorativo e se gli scienziati della Lega non avessero fissato il fischio di inizio per le 21.15 – anticipato di ben un quarto d’ora dopo le vibranti proteste del prefetto – con un assurdo coprifuoco sanitario ancora in vigore alle 23. Ma ci si accontenta, che tutto questo sembra già troppo rispetto a una settimana prima.
Di quelli davanti, che egregiamente si danno da fare con i tamburi, non conosco praticamente nessuno. Pochi anni di distanza dalle prima file sotto alle balconate, e di avvicendamenti continui tra gruppi, scazzi e ricomposizioni creano anche questo. Più indietro, invece, fioccano gli abbracci e le occhiate complici. Le facce della serie D, dei cento e poco più sul treno bloccato per Treviso, del corteo per le nebbie di un’Adria deserta, del buco sulla recinzione in cui si è entrati senza pagare a Palazzolo sull’Oglio. Le facce dei playoff col Pisa che dritti a scuola il giorno dopo, del bambino di Sesto San Giovanni e quelle che fissavano il mare di Fano alle tre di mattina dopo la poule scudetto di Gubbio. Nessun reducismo lezioso, solo la fierezza di un vissuto comune che, appena più in là della sagoma dei pini marittimi che puntellano Sant’Elena, oggi è un orizzonte più grande di noi.
Saranno gli ultimi metri fatti di corsa sull’erba umida della pineta ma sembra che stiamo per riprendercelo davvero, il vecchio Penzo, stagliato su un tramonto con montagne riflesso sull’acqua come solo lui sa essere in certe giornate speciali.
Local team
Un sabato di serie B di un paio di anni fa, sciarpe al collo e birre in mano, incrociammo una coppia di turisti. Britannici, inglesi dall’accento, appena venuti fuori dalla Biennale. Ci chiesero, con reale stupore, che diamine stessimo andando a fare conciati così. «Going to see the match», rispose quello più espansivo del gruppo. I due ci chiesero in che bar, dopo aver realizzato che si parlava del «local team». Macché bar, allo stadio.
«There is a stadium in Venice?»
Sì, in Venice c’è il fuckin’ stadium più vecchio d’Italia dopo il Luigi Ferraris di Genova che però sembra molto più nuovo, cari amici d’Oltremanica.
Elettrizzati come due bambini corsero a comprare i biglietti per quelle che, piace pensarlo, saranno state le due ore più memorabili della loro vacanza, l’aneddoto principale con cui intrattenere gli amici del pub una volta fatto ritorno.
È così da queste parti. Gli occhi a fanale quando racconti che abiti lì, a pochi metri. Che mandi tuo figlio all’asilo o che andavi a scuola con gli stivali per l’acqua alta. A tanto siamo arrivati. A raccontare, beati, quanto è dannatamente bello essere gli ultimi rimasti.
Storytelling metropolitano
Metropolitano è l’aggettivo. Riferito all’agglomerato urbano diffuso in cui viviamo, pretende di tirare assieme le archeologie industriali con i monasteri medievali delle isole, il tardo gotico delle bifore con il cemento dei nuovi centri servizi. Una sintesi artificiale del territorio funzionale al profitto di chi vi si riempie la bocca, dove ogni spazio ha una sua funzione produttiva strettamente interconnessa con le altre. Cazzate, per lo più: una narrazione nata per giustificare le nefandezze dell’abbandono all’economia turistica di un “centro storico” sempre più scenografia e della costruzione di nuove infrastrutture in terraferma.
Nello storytelling metropolitano lo spettro dello Stadio Nuovo, che attende lì al varco ad ogni finale di stagione, ha sempre avuto un ruolo da protagonista. Funzionale e raggiungibile dall’intero territorio, sogno nel cassetto in grado di appagare gli appetiti degli imprenditori e di venire incontro alle legittime esigenze del tifoso automunito che, è risaputo, ci mette meno ad andare a Udine che a raggiungere Sant’Elena con i mezzi pubblici.
E andatevene a Udine, allora. Come se il pallone e la sua mistiche fossero mai state questioni di parcheggi da trovare facilmente. Come se l’essere unionisti avesse mai somigliato a qualcosa di vagamente confortevole.
Lasciateci ai nostri drammi interiori, alle via crucis di ombre e cicheti tra le rovine di ciò che eravamo, che ci ricordano cosa non saremo mai più. Lasciateci espiare la colpa di aver abbandonato la casa per la fabbrica e quella di essere tornati per fare di casa la fabbrica stessa. Lasciateci celebrare l’Unione, misteriosa entità sovrannaturale che parla al suo popolo o a ciò che ne è rimasto. Andatevene a Udine e deve co un legno.
La Serie A per l’Unione
Finiamo a guardarla al Partito, dove i veci hanno sistemato un piccolo proiettore tra un poster di Berlinguer e il busto di Lenin. Proiettano direttamente oltre il rio, sulle mura dell’Arsenale. Si vede malissimo ma c’è da dare ragione ad un amico furlan quando dice che gli sembra la pagina di un racconto di Galeano. O di Osvaldo Soriano. Al trentaseiesimo del primo tempo siamo sotto di un gol e di un uomo. Si deve soffrire anche oggi, più che mai. Soffre anche il quadretto del Che il quale, col suo sguardo fiero, ti ricorda che hai sempre pensato fosse più facile fare la rivoluzione che rivedere la serie A prima della vecchiaia.
Poi gli scoppi e la festa, i fuochi d’artificio in una Piazza San Marco che nessuno dei presenti ricorda l’ultima volta che è stata così viva.
Ha segnato Bocalon ma il gol l’abbiamo visto davvero solo dopo svariate ore, sullo schermo di un telefono, smaltendo lentamente la sbornia.
Ha segnato Bocalon e la prima cosa che ha detto ai microfoni è che nessuno può capire, che lui «È nato qui, a dieci minuti».
La frase che ogni veneziano dice prima di iniziare qualsiasi conversazione. Per rimarcare la propria zona di influenza, l’infallibilità che gli va riconosciuta quando discorre di ciò che gli appartiene per diritto naturale. Tra le calli e i bacari, nelle superflue dispute sui massimi sistemi, chi è nato più vicino al cuore dell’argomento ha, per forza di cose, ragione dello stesso.
Nulla di opinabile, è così e basta, sappiatelo.
E allora diglielo Riki, da dove vieni. Diglielo forte.
Quasi un epilogo
Obbedendo alle leggi del mercato, tutto quel che concerne il nome Venezia gode di un interesse giornalistico spropositato. Anche nelle più documentate e posate inchieste, inevitabilmente si finirà per leggere qualche nota di colore locale che, in un attimo, si trasforma in becero folklore. In oggetto di studio per antropologi improvvisati. Ciò, che ci gonfia l’ego illudendoci di possedere ancora una centralità perduta più o meno a metà del XVI secolo, non aiuta a farsi carico della complessità delle questioni, alimentando un distacco dal reale sempre più grottesco e irrecuperabile.
La riconquista della massima serie da parte della sua rappresentanza calcistica non poteva quindi che trasformarsi nella vittoria di Venezia e dei suoi abitanti contro la calamità del turismo di massa, solleticando gli appetiti dei cercatori di facili sentimenti.
Sarebbe bello, certo, credere che un gol al ’93 possa bastare a dare la sveglia alla plebe addormentata che, con uno scatto di dignità troppo a lungo rimandato, finalmente si riprende i suoi spazi e le sue strade con amore e fraternità. Che nel comune riconoscersi in una maglia trova la forza per rifiutare la vita in un parco giochi per turisti o in una periferia triste. Che ritorna ad occuparsi dei propri destini come si è occupato di sostenere la propria squadra fino alla fine.
Ma no, non basterebbe un scudetto. Forse, nemmeno la proverbiale Champions League ad Amsterdam.
Però, pochi o tanti, sappiamo che chi ha pianto di gioia la notte del 27 maggio è l’ultimo popolo di questa città. Quello che abita nei vecchi quartieri periferici rispetto ai flussi turistici, che sono poi stati la geografia dei festeggiamenti più accesi: Castello basso, Santa Marta, Catene, il CEP, Spinea, finanche il litorale Nord. Ma anche chi ha esultato da Torino, Roma o dall’altra parte del mondo. Perché l’Unione, più che una fusione tra squadre o l’assimilazione di due centri urbani, è sentirsi tutti “nati a dieci minuti da qui” dopo un gol al ’93.
E che questo, per ora, ci basti.