«Io, Gavillucci, primo a sospendere una gara per razzismo: ora sogno di arbitrare a Wembley»
«Sospendere una partita a causa di cori razzisti non è come fischiare un calcio di rigore. E’ una scelta che va oltre il regolamento. Ci vuole sensibilità. E anche un po’ di spregiudicatezza, perché non si conoscono le conseguenze». Sensibilità che all’arbitro Claudio Gavillucci non è mancata il 13 maggio 2018, durante un Sampdoria-Napoli valido per la penultima giornata di campionato di Serie A, quando dalle tribune del Ferraris si alzarono vergognosi ululati nei confronti del difensore partnenopeo Koulibaly, inframezzati da insulti alla città di Napoli. Decise – terzo direttore di gara in A a farlo, ma primo in assoluto per quanto riguarda la discriminazione territoriale – di interrompere per qualche minuto l’incontro, come previsto dal regolamento. Le conseguenze? Altroché premi o riconoscimenti, come era lecito aspettarsi: poche settimane dopo Gavillucci fu bocciato dalla Commissione arbitrale e declassato all’ultimo posto nella graduatoria dei fischietti di A. Da cui scaturì, dopo una lunga battaglia giudiziaria con l’Aia (Associazione Italiana Arbitri), il suo addio all’arbitraggio in Italia.
“Motivate ragioni tecniche”, la ragione ufficiale. Ma ufficiosamente qualche domanda, visto l’immediata vicinanza dei fatti, sorse automatica. E risuona tutt’oggi inquietante. Così Claudio, due anni e svariate vicissitudini dopo, ha messo nero su bianco la vicenda (e molto altro) in un libro, ‘L’uomo nero: Le verità di un arbitro scomodo’, edito da Chiarelettere e scritto con le giornaliste Manuela D’Alessandro e Antonietta Ferrante. Ventuno, complici gli insulti razzisti tornati tristemente alla ribalta nelle ultime settimane (ai danni del portiere del Milan Maignan e, ancora, di Koulibaly), ha voluto nuovamente fare luce sul tema (che avevamo già trattato con questo pezzo https://www.ventuno.news/2021/10/koulibaly-gavillucci-e-il-razzismo-che-non-passa/) raggiungendo al telefono Gavillucci, che ha risposto dalla sua Latina.
Già, perché Claudio, quando non si trova a casa, è di stanza in Inghilterra, a Liverpool, dove porta avanti un’attività imprenditoriale. E ha ripreso ad arbitrare. Nelle serie minori. Con l’incredibile sogno, celato ma non troppo, di scalare le categorie e tornare a quei vertici che in Italia ha frequentato per anni e che gli sono stati negati. Perché no, arrivando a dirigere nientemeno che una gara di Premier League. «Ma mi accontenterei di una finale playoff a Wembley tra squadre delle serie minori, che tutti gli anni viene disputata nel tempio londinese. Dovesse succedere non basterebbe scrivere il seguito del libro, bisognerebbe farci un film o una serie tv», sorride Claudio, sposato e padre di una bimba di 11 anni.
Gavillucci, l’inquietante assioma che emerge leggendo la sua storia è questo: “Estromesso dalla classe arbitrale italiana per aver sospeso una gara in seguito a cori razzisti e di discriminazione territoriale”. E’ andata davvero così?
«Non ho mai potuto affermarlo con certezza. Non ho le prove. Ma in quella stagione ero stato il quarto arbitro più utilizzato, designato per gare importanti: vedi quel Sampdoria-Napoli, quando gli azzurri ancora si stavano giocando lo Scudetto, o l’ultima di campionato Udinese-Bologna, decisiva per la salvezza. Solo poche settimane più tardi, invece, sono stato dismesso, giudicato non più idoneo. Tutto ciò stride. Perché? Più passa il tempo e più sono emersi indizi che, messi insieme, inducono a pensare che la lotta al razzismo e alla discriminazione negli stadi non è stata quella dello ‘scoviamoli e allontaniamoli’, bensì quella del ‘minimizziamo’ e ‘nascondiamo la polvere sotto il tappeto’».
Indizi di che tipo?
«Faccio qualche esempio, di cui sono venuto a conoscenza negli anni. Nel 2014 Tavecchio, allora candidato alla presidenza Figc, dovette rivedere il proposito di chiudere i settori degli stadi in caso di cori discriminatori, trasformandolo in ammenda. Al sistema troppa severità non andava bene. E, a fine 2018, durante un Inter-Napoli, si fece di tutto per declassare a ragazzate gli insulti razzisti sempre all’indirizzo di Koulibaly, senza interrompere la partita. Per tacere delle parole all’interno di un consiglio federale in cui Dal Pino, presidente della Lega Serie A, proponeva di togliere i microfoni dalle curve per non sentire ciò che si urla. Insomma, non le modalità migliori per combattere il razzismo».
In un articolo sul Fatto Quotidiano il giornalista Paolo Ziliani ha sostenuto che in Italia c’è la tacita indicazione di non sospendere mai le partite in caso di cori razzisti.
«Non lo so, ma finché ho arbitrato in A le indicazioni non erano queste, benché non ne parlassimo molto. Dopotutto sospendere le gare è un’extrema ratio, che va oltre il regolamento, e a cui noi arbitri non eravamo e non siamo preparati. Per me, in quel Samp-Napoli, sarebbe stato più facile far finta di niente di fronte ai cori. I rischi di una sospensione erano molti: come avrebbe reagito la curva? Poteva ribellarsi. Capitare persino un altro Heysel. Ma se non l’avessi fatto non avremmo iniziato un percorso, un anno zero. Che non ha ancora portato a nulla, ma almeno si parla del problema, come hanno fatto i media di tutto il mondo dopo quel 13 maggio 2018. E l’ho fatto anch’io nel mio libro, per lanciare un messaggio contro il razzismo e raccontare le dinamiche di un ambiente oscuro e refrattario ai riflettori come l’Aia».
Perché questo tabù nelle istituzioni calcistiche?
«Dovrebbe chiederlo a loro. Ciò che posso dire è che l’approccio soft di fronte a questi fenomeni non ha funzionato. Va adottato il pugno duro, comminando il massimo delle pene. Cinque anni di squalifica dagli stadi sono pochi: occorre fare come in Inghilterra, dove sono le stesse società ad allontanare per sempre i razzisti. Chi pronuncia certi insulti deve essere certo che non potrà mai più rimettere piede in uno stadio».
Già, l’Inghilterra. Un paese che lei conosce bene.
«A fine anni Ottanta erano messi molto peggio di noi a causa degli hooligans, poi hanno rifondato il sistema. La Premier League è diventata l’NBA del calcio. Anche qui il razzismo esiste, specie nei confronti di noi italiani. Ma contrariamente a noi è abituata ad avere influenze da tutte il mondo che oggi sfrutta. Boris Johnson, che è tutto tranne che di sinistra, dopo gli insulti razzisti in Bulgaria-Inghilterra ha chiesto e ottenuto le dimissioni del presidente delle Federcalcio bulgara. Non ha minimizzato come spesso facciamo noi. E quando racconto del mio episodio, impazziscono letteralmente».
Ci racconti la sua vita a Liverpool.
«Ho aperto un’azienda e faccio su e giù con l’Italia. E poi arbitro in National League, che corrisponde alla nostra Serie D. Mi sto divertendo molto. Questo weekend arbitrerò Guiseley Afc-Chorley Fc. Essendo nel nord-ovest dell’Inghilterra mi capita di arbitrare squadre storiche, nate prima del Novecento: vedi lo Sheffield Fc, la squadra più antica al mondo, o il Notts County, che diede le maglie bianconere alla Juve. Negli spogliatoi si respira la storia del football, ci sono immagini che fanno accapponare la pelle».
Differenze con l’Italia?
«Il calcio qui è molto più fisico e meno tecnico, mi capita di fischiare in una gara solo 13-14 falli. Il minutaggio effettivo di gioco è altissimo ovunque, motivo per cui le partite di Premier sono vibranti e quelle di A molto meno. E a fine gara, qualsiasi cosa accada, squadre avversarie e arbitri fanno tutti insieme il terzo tempo».
Come ha cominciato ad arbitrare in Inghilterra?
«Per caso. Ho preso casa vicino ad un arbitro di Premier e in palestra ci siamo conosciuti. Noi fischietti, dopotutto, abbiamo tutti la stessa faccia. Mi ha portato nella sezione arbitrale, dove peraltro ho incontrato Anthony Taylor, l’arbitro dell’ultima finale di Nations League, e ho ripreso a dirigere gare dalla categoria che corrisponde alla nostra Eccellenza. Grande è la meritocrazia: sebbene abbia diretto 50 gare di A e oltre 100 in B, mi hanno abbuonato solo il corso arbitrale. Ho dovuto, e devo ancora, dimostrare tutto. Lo stop per il Covid ha sospeso il percorso per un po’, ma ora sono arrivato in National e mi trovo ai primi posti nelle classifiche degli arbitri».
Può sognare di raggiungere la Premier?
«Più che in Premier, che prevede dinamiche particolari, il mio obiettivo è arrivare ad arbitrare a Wembley. Sarebbe il coronamento di questa mia seconda carriera. Le finali playoff di tutte le categorie, fino alla D, si giocano tutte lì. Se ce la farò, scriverò il continuo de L’uomo nero. Tempo e possibilità ci sono, qui non esistono limiti di età per arbitrare».
Sente di essere caduto in piedi, paradossalmente?
«Non proprio, posso garantire che è stata dura rialzarsi. Ma in Inghilterra mi sono riconciliato con il calcio».
Tornerebbe ad arbitrare in Italia?
«A livello arbitrale è un capitolo chiuso. Se ne può parlare sul piano dirigenziale: la dirigenza del nuovo presidente dell’Aia Trentalange mi è stata vicina e ho detto no alla loro proposta. Mai dire mai per il futuro. Ma ora i miei interessi sono in Inghilterra. E mi sento ancora arbitro».
Esiste una crisi di vocazione nel ruolo?
«Assolutamente sì. E’ un problema che sfocia anche sul piano tecnico, perché se i numeri di arbitri da cui attingere diminuiscono il livello generale giocoforza scende. Le cause? Una mala gestione negli ultimi 10 anni, che ha portato all’abbandono di tanti giovani arbitri. Bisogna creare interesse, stimolare i ragazzi, andare contro i vecchi sistemi. Come le vecchie sezioni, ormai anacronistiche».
Come ha deciso di diventare arbitro?
«Ero un buon giocatore, per caparbietà, fisicità e personalità credo che sarei arrivato in Eccellenza o D. Volevo sempre vincere, aver ragione. Avevo la cazzimma, come dicono a Napoli. Per questo mio zio, che faceva l’allenatore, mi ha convinto a fare il corso da arbitro a Latina. Nella mia prima partita tra il pubblico c’era il presidente della mia sezione, poi diventato consigliere regionale del Lazio, che mi disse: ‘Se capisco qualcosa di arbitraggio, puoi arrivare in A’. E così successe, per 50 partite. Il mio debutto, dopo aver scalato tutte le categorie, avvenne a 33 anni. Per 25 anni ho arbitrato in qualsiasi stadio italiano. L’ultima volta fu per Udinese-Bologna, che diressi perfettamente. Poi dopo venti giorni fui dismesso per motivi tecnici. Se ci penso, ancora non me ne capacito».
Non si può finire un’intervista ad un arbitro senza accennare al Var….
«Nel mio libro vi dedico un intero capitolo. Ha cambiato tutto, indubbiamente migliorando la nostra condizione. E’ stata una bomba psicologica, un sos lanciato quando si rischiava di affondare. Certo, servirà una nuova generazione di arbitri, più propensa ad accettare un proprio errore e la relativa correzione dalla tecnologia, un qualcosa che prima non era contemplato. Ma in generale gli arbitri sono contenti. La mia esperienza col Var? Ho fatto tempo ad usufruirne solo nel 2017-18, la stagione dell’esordio. In un Torino-Fiorentina fui corretto tre volte in occasione di altrettanti rigori e presi il voto più brutto della stagione. Eppure le decisioni finali erano giuste. Inizialmente l’Aia non era pronta e gli arbitri corretti dalla tecnologia erano penalizzati, come ho dimostrato nel libro documenti alla mano. Oggi per fortuna la situazione è migliorata. Il Var in Inghilterra? E’ uno strumento molto più utile in Italia, qui meno interruzioni si hanno e meglio è».